Proteste a Brixton lo scorso anno, il primo agosto, in occasione dell’Emancipation Day (foto Ansa)

Oltre la ferita di Brixton

Luciana Grosso

A quarant’anni dalla rivolta razziale più violenta del Regno Unito, il paese si interroga ancora sul proprio modello di integrazione. L’inchiesta del governo Johnson e le domande rimaste senza risposta

A quarant’anni dalla rivolta razziale più violenta del Regno Unito, il paese si interroga ancora sul proprio modello di integrazione. L’inchiesta del governo Johnson e le domande rimaste senza risposta. Tra pochi giorni sarà l’anniversario dei Brixton Riots, la rivolta razziale forse più violenta della storia recente dell’Europa: tra il 10 e il 12 aprile del 1981, nel giro di due giorni e mezzo, furono ferite quasi 400 persone, per lo più poliziotti e centinaia di auto e vetrine furono date alle fiamme. Non solo. Al di là dei danni e della violenza, al di là delle barricate e delle fiamme, al di là del fatto che poi, comunque, la rivolta fu sedata e le persone, un po’ sconfitte, un po’ stanche, un po’ rassegnate, se ne tornarono a casa a contarsi le miserie, comunque, la vita di tutti, poliziotti e rivoltosi, cambiò per sempre, condannata a portarsi addosso le cicatrici di tutta quella rabbia, di tutta quella miseria, di tutta quella disperazione.  

A far scoppiare tutto, nella primavera del 1981, a far lanciare quelle pietre e incendiare quelle auto, fu un mix tossico di povertà (più del 55 per cento degli abitanti di quel quartiere di Londra era disoccupato), di razzismo (la popolazione era quasi completamente nera-caraibica), di microcriminalità (circa 10 mila all’anno i reati denunciati) e di violenza della polizia. In particolare, la rivolta ebbe inizio a pochi giorni dal via all’operazione anticrimine Swamp 81, concepita proprio per contenere furti, rapine e spaccio, e che fece riversare per le strade del quartiere uno sciame di poliziotti, per lo più in borghese che, alla luce della SUS Law inglese, erano autorizzati a fermare, perquisire e interrogare chiunque avesse un aspetto che fosse, a loro insindacabile giudizio, sospetto

Nella sola settimana precedente gli scontri, per effetto della SUS Law, furono fermate e interrogate quasi mille persone che non stavano facendo, nella stragrande maggioranza dei casi, niente che non fosse camminare per strada. Una situazione che aveva reso l’aria del quartiere irrespirabile al punto che quando un giovane, Michael Bailey, fu trovato riverso per strada, accoltellato, gli abitanti del quartiere incolparono i poliziotti e accesero la miccia delle violenze. Da quei primi tafferugli esplose poi la rivolta e per giorni Brixton fu preda delle fiamme e delle barricate: di qua i poliziotti, più di duemila, quasi tutti bianchi; di là gli abitanti, poveri e furenti e quasi tutti neri, del ghetto.


 Tra il 10 e il 12 aprile del 1981, scoppiarono i Brixton Riots, nel quartiere londinese che oggi è tutto diverso


 Oggi, da quelle sassaiole e da quelle fiamme sono passati quarant’anni e Brixton non ha per niente l’aspetto di un quartiere povero e di emarginati. Anzi: è una delle zone più frizzanti e gentrificate di Londra, uno di quei posti dove si mangia fusion e, alla sera, si sente ottima musica in locali hipster. Ma le cicatrici, quelle, non passano. E infatti quarant’anni dopo quelle rivolte ( cui poi, negli anni, ne sono seguite altre, nel 1985, di nuovo a Brixton, dopo che la polizia, mentre cercava un ladruncolo, sparò alla madre di questi, un episodio attorno al quale gira il bellissimo libro “The Louder I Will Sing”, scritto dal figlio minore della vittima; oppure ancora, sempre a Brixton, nel 1995, quando per altri due giorni il quartiere fu in rivolta per la morte, mentre era in custodia, di un rapinatore di 26 anni e per l’ondata di sfratti che stava arrivando di pari passo alla riqualificazione del quartiere; oppure, più di recente, a Tottenham, nel 2011, a seguito dell’uccisione mai chiarita di uno spacciatore nero durante un arresto), il Regno Unito è ancora qui a chiedersi, se e quanto la sua società sia intrinsecamente e socialmente razzista. A chiedersi se, come i cugini americani, gli inglesi siano afflitti inconsapevolmente da razzismo sistemico, ossia immersi, senza nemmeno rendersene conto, in una società pensata e progettata per perpetrare le discriminazioni, per impedire, invece che per favorire, effettiva integrazione. 
Non sono domande da poco per un paese nel quale il 15 per cento della popolazione è BAME (Black, Asian, Minority Ethnicity) e lo è il 44 per cento degli abitanti della capitale. Non è una domanda da poco in un paese che, solo una manciata di anni fa, pur di togliersi di torno l’immigrazione, ha scelto di uscire dall’Unione europea. Non sono domande da poco in un paese nel quale, secondo i dati di YouGov, l’84 per cento della popolazione di colore pensa che il razzismo ci sia ancora, anche se in forme attenuate e meno mordaci di 30 anni fa.  Non sono domande da poco neppure a pochi mesi dalle manifestazioni americane di Black Lives Matter e soprattutto, non lo sono a quarant’anni dalle rivolte di Brixton. E’ naturale chiedersi: se le strade e le piazze del quartiere sono diventate una frizzante e costosissima zona residenziale, cos’è successo a chi le abitava? Cos’è successo ai loro figli?


L’inchiesta del governo ha concluso che il problema non è il colore della pelle ma povertà e diseguaglianze sociali


Il premier Boris Johnson ha affidato le risposte a tutte queste domande  all’indagine di una commissione governativa, la Commission on Race and Ethnic Disparities, incaricata la scorsa estate, proprio in coincidenza delle marce americane di Black Lives Matter, di scoprire se e quanto la società inglese sia razzista.  
I risultati del report sono usciti la scorsa settimana  e sono stati molto positivi. In buona sostanza  si evidenzia il fatto che, sì, nel Regno Unito ci sono disparità e ingiustizie, ma che queste sono da attribuire più a condizioni sociali ed economiche che a discriminazioni razziali. Il rapporto della commissione di BoJo dice che il problema si pone per chi è povero o vive in condizioni sociali ed economiche difficili, indipendentemente dal colore della pelle che nella socie,tà di oggi non è causa di emarginazione a priori.  A riprova del fatto che il Regno Unito di oggi abbia sì problemi sociali ma che questi non siano dovuti al razzismo degli inglesi bianchi, il report cita due esempi: “I  bambini delle comunità di minoranze etniche  ottengono a scuola risultati pari, ove non migliori, di quelli degli alunni bianchi, con la sola eccezione degli alunni neri caraibici, l’unico gruppo a ottenere risultati meno buoni”; allo stesso modo, “il divario salariale tra tutte le minoranze etniche e la popolazione a maggioranza bianca si è ridotto negli anni al 2,3 per cento ed è quasi azzerato per i dipendenti sotto i 30 anni; la diversity è aumentata in professioni come  legge e medicina”. Non solo: secondo il report, il razzismo esiste sì, ma è più che altro un fatto individuale, di singoli, di esaltati che, attraverso i social, riescono a far risuonare le loro deprecabili posizioni con eco maggiore e sproporzionata rispetto al loro reale peso nella società.  “La Gran Bretagna – conclude il report – non è più un paese in cui il sistema è deliberatamente truccato contro le minoranze etniche,  e  gli impedimenti e le disparità che pure ci sono non hanno a che fare con il razzismo ma con fattori come la geografia, l’influenza della famiglia, il contesto socio-economico, la cultura e la religione”. 

Tutto a posto allora? Ni, perché i risultati dell’indagine governativa, salutati con un enorme sorriso dall’amministrazione Johnson, sono invece stati molto contestati dalla stampa di sinistra (il Guardian su tutti, che ha pubblicato un editoriale il cui titolo suona più o meno: Ma sei serio?), dall’opposizione (il leader laburista Keir Starmer ha detto di sentirsi “deluso” dall’esito dell’inchiesta, che ha definito “riluttante ad accettare e ammettere le lacune struttural”) e soprattutto da numerose associazioni antirazziste. Una di queste, Operation Black Vote, ha parlato di “una negazione monumentale della disuguaglianza razziale strutturale nel Regno Unito che, addirittura, si nega esista”.  Il gruppo Runnymede, invece, ha preparato una puntuale controrelazione che smentisce  le conclusioni cui è arrivata l’inchiesta governativa, ritenenendole miopi e autoassolutorie: “I dati ci dicono che, nel Regno Unito di oggi, una giovane madre nera ha quattro volte più probabilità di morire di parto rispetto a una sua amica bianca. Un giovane uomo di colore ha 19 volte più probabilità di essere fermato e perquisito dalla polizia metropolitana rispetto a un bianco e quelli con cognomi che suonano neri o asiatici devono inviare il doppio dei CV dei loro omologhi bianchi, con le stesse qualifiche, per ricevere gli stessi lavori”. Non solo. Secondo il gruppo antirazzista l’evidenza del fatto che il razzismo in Gran Bretagna esista e sia causa di emarginazione (che ne diventa prima effetto e poi ulteriore causa) starebbe nel fatto che negli ultimi mesi il Covid abbia fatto molte più vittime di colore che bianche: “Il 60 per cento dei primi medici e infermieri del sistema sanitario (Nhs) a morire proveniva dalle comunità BAME, nonostante questi rappresentino soltanto il 20 per cento dei dipendenti dell’Nhs”. 


Le conclusioni dell’esecutivo sono state molto contestate, non solo da critici “prevedibili” 


Anche alcuni risultati del report che sono stati presentati come eccellenti segnali del fatto che, in fin dei conti, il Regno Unito non abbia poi tanti problemi di razzismo risulterebbero secondo Runnymede fallati all’origine e parziali. Per esempio, se è vero che i bambini non bianchi hanno buoni risultati a scuola, secondo i dati di Runnymede questo riguarda soltanto asiatici e figli di coppie miste con un genitore bianco, mentre “neri, bianchi dell’est Europa, pachistani e residenti provvisori avrebbero tassi di rendimento scolastici inferiori alla media”.

Sulla stessa linea ci sono anche altri studi, tutti molto recenti e tutti molto autorevoli. Uno su tutti: quello commissionato  dall’ex premier Theresa May. Nel 2017 la May diede mandato per completare il “Race Disparity Audit”, un report indipendente sulle discriminazioni razziali nel Regno.  Il rapporto, all’epoca, concludeva che  “esistono disuguaglianze tra le etnie nel livello di istruzione, della salute, dell’occupazione e del trattamento da parte della polizia e dei tribunali”.  Lo stesso, due anni dopo, ha fatto il Centre for Social Investigation dell’Università di Oxford con il “Report on Ethnic Minority Job Discrimination”, nel quale si concludeva che i britannici neri e asiatici rischiavano di affrontare, nel mercato del lavoro, la stessa discriminazione presente negli anni Sessanta e Settanta. 


La pandemia ha approfondito le fratture sociali e quelle dell’integrazione. Sono molte di più le vittime di colore


Dunque, alla fine, la domanda resta: il Regno Unito è ancora e davvero razzista? Il paese che ha per capitale una delle città più vibranti e multirazziali del mondo è ancora e davvero razzista? E, ammesso che le conclusioni della commissione di BoJo siano vere e non contestabili, il fatto che i problemi di emarginazione siano collegati alla condizione sociale e non al solo colore delle pelle li rende meno sbagliati e più accettabili? Lasciare indietro chi è povero è meglio che lasciare indietro chi ha la pelle nera?

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