Biden e Yellen dichiarano guerra alle ai paradisi fiscali e ai big che non pagano tasse
Dopo i pacchetti di sostegno all’economia, la proposta anti-elusione di una tassa minima globale sui profitti. Negli Usa lo stato torna centrale
E tre. Dopo il sostegno alle famiglie (1.900 miliardi di dollari) e il piano di investimenti per difendere la leadership nei confronti della Cina (altri 2.300 miliardi di dollari, spalmati in otto anni), l’amministrazione Biden affronta il capitolo delle tasse. Anzi, dell’elusione/evasione delle multinazionali che trovano riparo nei paradisi fiscali. L’onore di lanciare la sfida è toccato a Janet Yellen, la ministra del Tesoro, ex presidente della Fed, che appare sempre di più l’ispiratrice delle mosse del presidente Biden. Parlando a Chicago, alla vigilia di una settimana zeppa di appuntamenti tra i grandi (G20, assemblea del Fondo Monetario internazionale e della Banca mondiale), miss Yellen ha lanciato questo messaggio: “Intendiamo lavorare con i paesi del G20 per individuare un livello minimo di tassazione sulle società che possa metter termine alla corsa al ribasso ai danni degli Stati”. Ovvero, bando una volta per tutte ai paradisi fiscali.
Una sfida, per la verità, già tentata senza troppi risultati in questi anni un po’ da tutti i governi, compresa l’amministrazione Obama. Ma stavolta sembra un’altra cosa. Innanzitutto, perché gli Stati Uniti vogliono condurre l’offensiva assieme agli altri, scacciando i fantasmi dell’era Trump. “Negli ultimi quattro anni – ha detto Yellen – abbiamo visto che cosa succede quando l’America si ritira dalla scena mondiale: America First non può essere l’America da sola”. Secondo, perché Washington deve dimostrare ai mercati, pur fiduciosi per il momento, di saper gestire l’aumento del costo del debito, una preoccupazione che ha fatto ballare Wall Street nelle scorse settimane. Qualcosa, ma non molto, è già stato annunciato: la cancellazione di alcuni sgravi fiscali voluti dai repubblicani, l’aumento della corporate tax dal 21 al 28 per cento (comunque meno del 35 per cento dell’era Obama) e delle tasse sui redditi, ma solo per chi vanta un imponibile superiore ai 400 mila dollari.
Ora, però, è arrivato il piatto forte: a pagare il conto saranno le multinazionali, così come aveva anticipato lo stesso Biden a Pittsburgh, presentando il piano di investimenti fino al 2030. “Nel 2019 – aveva detto – 91 società dell’indice Fortune 500, le più importanti del mondo compresa Amazon hanno utilizzato ogni possibile espediente per non pagare un solo centesimo di imposte sul reddito. Non voglio esser punitivo, ma così non va: un pompiere o un insegnante pagano il 22 per cento, perché Amazon nemmeno un dollaro?”. E la scelta del colosso di Jeff Bezos era tutt’altro che casuale: in questi giorni in Alabama i 6 mila dipendenti di un magazzino di Amazon stanno cercando di creare, contro un’aspra opposizione padronale, la prima cellula sindacale nel gruppo che è ormai il secondo datore di lavoro del Paese, con 960 mila addetti. Insomma, l’offensiva fiscale si sposa bene con l’obiettivo di allargare l’area del consenso del presidente che, dopo aver premiato con il provvedimento sugli stimoli i ceti medi (gratificati con la distribuzione di 1.400 dollari a testa fino ad un reddito di 75 mila dollari), galvanizzato le piccole e medie imprese con il piano per le infrastrutture, ora alza il tiro contro i vari Google, Facebook o la stessa Apple, le multinazionali che dalle Bahamas all’Irlanda, hanno disseminato i loro tesori in porti al riparo dal fisco. Una partita che gli States da soli non possono vincere. “L’intenzione del presidente – ha precisato infatti Yellen – è quella di suscitare un impegno internazionale comune nella convinzione che è importante, anzi necessario, lavorare con gli altri paesi per mettere fine alla pressione della concorrenza fiscale, quel fenomeno che porta all’erosione dell’imposta dovuta agli Stati”.
Certo, non sarà facile passare dai principi a un piano di battaglia preciso. Biden, a Pittsburgh, si è spinto a dire di voler imporre un’aliquota del 21 per cento sui profitti di tutto il giro d’affari delle multinazionali, sia quello realizzato negli Stati Uniti che altrove. Ma se così fosse, le varie Agenzie delle entrate europee dovrebbero accontentarsi delle prime o poco più. Facile prevedere che ci sarà un confronto non facile in sede Ocse, anche a prescindere dall’ostilità di paesi come l’Olanda che sui “panini fiscali” ci campano in pratica da sempre. Il mondo però è cambiato dai tempi della globalizzazione più spinta, quando sembrava che gli stati dovessero rassegnarsi alla legge dei nuovi “padroni dell’Universo”. Oggi, anche nella patria del liberismo, ha avuto di nuovo il sopravvento il dirigismo. Torna in auge lo stato imprenditore, non solo regolatore, e il dirigismo economico sta cambiando le regole del gioco dalla fine del divorzio tra banche centrali e Tesoro alla repressione finanziaria, alla difesa dei campioni nazionali e alla volontà di rimpatriare le produzioni essenziali per garantire l’autosufficienza, compresi i chip e i medicinali.
In questo clima, i paradisi fiscali rischiano di veder esaurita o quantomeno limitata la loro funzione. La missione di Biden dunque non sarà semplice ma è assai meno velleitaria di una decina di anni fa, quando il blitz di Obama si ridusse a un flop. L’amministrazione democratica può inoltre far conto sul dinamismo ritrovato dell’economia, lanciata verso la ripresa dalla politica espansiva voluta dalla Casa Bianca. L’America di Biden, secondo le previsioni del Fmi, a fine anno marcerà a un ritmo più elevato del nemico cinese, con un tasso di crescita del 6,5 per cento (contro il 6 di Pechino). A sostenere la domanda mondiale, intanto, saranno i consumatori a stelle e strisce che compreranno senza risparmi i prodotti elettronici del Far East, purché finisca la penuria di chip che minaccia anche la ripresa del mercato dell’auto, oltre agli abiti e agli alimentari in arrivo dall’Europa. Un boom che, secondo Goldman Sachs, farà lievitare il pil dei partner di almeno mezzo punto percentuale o anche di uno. E questo dovrebbe favorire un dialogo più proficuo sul fisco, ove tutti gli stati potrebbero aver qualcosa da guadagnare a danno dei colossi che hanno tratto più vantaggio sia dalla clausura imposta della pandemia che dalla libertà d’azione del mondo globale.