incontri indiretti

Stati Uniti e Iran separati a Vienna

L'America non è più trumpiana ma non può comunque accettare l'accordo di sei anni fa. A Teheran Rohani vuole un successo prima della fine del suo mandato, ma Khamenei non è disposto a concederglielo

Micol Flammini

Biden da Teheran vuole un impegno più ampio, gli iraniani non ammettono patti diversi dal 2015. Il primo incontro indiretto ha prodotto poco, ma il ripristino del trattato interessa tutti. Le condizioni 

A volere il ripristino del patto sul nucleare del 2015 sono sia gli americani sia gli iraniani. Lo vogliono molto anche gli europei che ieri, facendo avanti e indietro, hanno cercato di far comunicare le due parti, che erano in stanze diverse e anche in alberghi diversi. L’incontro di ieri a Vienna, annunciato venerdì scorso dall’Unione europea, serviva a mettere giù un piano per studiare le tappe da seguire e i compromessi da fare per iniziare un processo, che sarà lungo e complicato, che preveda il ritorno degli Stati Uniti nel trattato sul nucleare, abbandonato da Donald Trump nel 2018. Ieri sono stati creati due gruppi di esperti che avranno il compito di risolvere le due condizioni attorno a cui ruota tutto, anche la partenza di futuri negoziati. Un gruppo si occuperà di studiare l’allentamento delle sanzioni da parte degli Stati Uniti e l’altro si occuperà di questioni legate al nucleare iraniano. I lavori sono iniziati subito, ma quanto ci vorrà per un ritorno al patto non si sa, anche perché l’Iran ha subito detto che l’unico patto che Teheran è pronta ad accettare è quello del 2015, il Joint Comprehensive Plan of Action (Jcpoa), non un altro. Nessun cambiamento, nessuna clausola in più, proprio quello che gli americani vogliono correggere perché sarà pur stato Trump ad abbandonare l’accordo, ma anche l’Amministrazione Biden crede che ci siano elementi da correggere e altri dossier su cui lavorare: la ricerca di Teheran sui missili balistici, le milizie irregolari create dall’Iran fuori dai suoi confini, le politiche aggressive in Siria, Libano, Iraq, Yemen. 

 

Quando nel 2015 si raggiunse l’accordo, fu il frutto di anni di lavoro e di mediazione, ma fu uno sforzo soprattutto tecnico, volto a inventare restrizioni sul nucleare e meccanismi di controllo. Questa volta l’accordo dovrà essere molto più politico, sia per l’Iran sia per gli Stati Uniti. Dovrà superare ostacoli  che sono interni ed esterni ai paesi. Per il presidente iraniano Hassan Rohani è l’ultima chance, vuole essere ricordato per qualcosa e magari come il presidente che è riuscito a far togliere le pesanti sanzioni americane che così duramente hanno colpito l’Iran. Ma se Rohani vuole un successo, la Guida Suprema, Ali Khamenei, non è disposto a concederglielo e probabilmente preferisce che l’accordo non si chiuda prima delle elezioni di giugno: non ha intenzione di lasciare che agli alleati di Rohani conquistino una vittoria diplomatica. I due paesi non si fidano l’uno dell’altro, ed è proprio sulla fiducia e sulle sue garanzie che Biden vuole lavorare. Per lui, l’accordo negoziato dall’Amministrazione Obama, quando lui era vicepresidente, è soltanto un punto di partenza,  all’Iran vanno imposti limiti più duri e  che siano destinati a durare di più. Se Biden vuole porre fine alla strategia della massima pressione voluta da Trump non può ammettere che, come si aspetta Teheran, gli Stati Uniti tornino nell’accordo così com’era nel 2015. L’America è cambiata e si è liberata di Trump, ma quell’accordo imperfetto, che piace all’Iran, non può piacere neppure a quest’America. Biden è disposto a fare le sue concessioni, è pronto a rilasciare un primo miliardo di dollari di entrate petrolifere congelate dalla Corea del Sud, e per la prossima settimana è prevista una visita del premier sudcoreano a Teheran, ma vuole l’interruzione della produzione del 20 per cento di uranio, ed è pronto a emettere sanzioni in futuro, se gli accordi non saranno rispettati. Unione europea, Francia, Germania e Gran Bretagna dovranno capire che non ci sono possibilità per un accordo frettoloso, Biden vuole tornare, ma vuole anche che questa volta il trattato sia un impegno più ampio.

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  • Micol Flammini
  • Micol Flammini è giornalista del Foglio. Scrive di Europa, soprattutto orientale, di Russia, di Israele, di storie, di personaggi, qualche volta di libri, calpestando volentieri il confine tra politica internazionale e letteratura. Ha studiato tra Udine e Cracovia, tra Mosca e Varsavia e si è ritrovata a Roma, un po’ per lavoro, tanto per amore. Nel Foglio cura la rubrica EuPorn, un romanzo a puntate sull'Unione europea, scritto su carta e "a voce". E' autrice del podcast "Diventare Zelensky". In libreria con "La cortina di vetro" (Mondadori)