Così l'Ue in Africa ricorre al soft power per fare concorrenza alla Cina
“Africa and European Union: Together, tomorrow, today”. Bruxelles lancia in queste ore una campagna di brand placement per aumentare la percezione europea e cancellare il retaggio neocoloniale
Go south. Il continente emergente, l’immenso vicino meridionale che sta sperimentando, sia pure a macchia di leopardo, una grande rinascita economica, attira in maniera crescente, anno dopo anno, l’interesse dei grandi player internazionali che carezzano il giovane leone e cercano di cavalcarlo, intravedendone le enormi potenzialità. Il 9 marzo 2020 l’Unione europea ha presentato il documento “Towards a comprehensive strategy with Africa” in cui il rapporto con il continente è stato ripensato, archiviando l’approccio esclusivamente solidaristico e il riflesso obbligato della cooperazione allo sviluppo, nella direzione di una vera partnership paritaria e a 360 gradi. Senza dimenticare che il primo viaggio extra-UE di Ursula Von der Leyen è stato proprio ad Addis Abeba, sede dell’Unione Africana. L’Unione europea cerca, dunque, di invertire la rotta. Sconta, però, un clamoroso deficit di conoscenza, consenso e riconoscimento da parte delle popolazioni africane, un deficit che riguarda anche le fasce d’età più giovani e alfabetizzate. L’Ue rimane il principale partner commerciale e politico, nonché il più grande donatore dell’Africa con investimenti e progetti per circa 75 miliardi l’anno. Ma ben pochi africani lo sanno.
Un sondaggio realizzato proprio per misurare il sentiment delle popolazioni africane, ha rivelato che l’Europa viene riconosciuta come un partner influente soltanto dal 10 per cento degli interpellati (l’85 per cento di questo 10 per cento ritiene che eserciti una influenza positiva) a fronte del 36 per cento degli Stati Uniti e del 47 della Cina. Eppure in Costa d’Avorio l’Unione europea è il primo trading partner e investitore privato, 350mila persone hanno avuto accesso all’acqua grazie a programmi sviluppati sotto la regia di Bruxelles, sono in corso azioni per portare l’elettricità a 2 milioni di persone, sono state formate professionalmente 8000 donne. In Ghana l’Ue è il primo trading partner con 4,5 miliardi e in Zambia l’Europa ha riequipaggiato ben 52 ospedali. Al contrario a Cuba è bastato inviare 50 medici in Angola, pubblicizzando questa missione, per conquistare un consenso altissimo.
Di fronte a questo corto circuito, paradossale esempio di masochismo comunicativo, l’Unione europea ha deciso di intervenire. Per cambiare la percezione e la narrazione dell’Europa ha deciso di mettere in campo un grande programma di “brand placement” dell’Unione europea, una campagna finanziata dal programma quadro delle comunicazione Ue per far conoscere in Africa il brand dell’Unione. Questo progetto di racconto dell’Europa - una sorta di controffensiva del soft power europeo che farà da capofila per altre iniziative simili - prevede il coinvolgimento di star locali della musica, del cinema e dello sport e di influencer africani che possano esprimere valori e aspirazioni condivise. Uno su tutti Didier Drogba, leggenda del calcio africano e vincitore con il Chelsea della Champions League nel 2012.
La campagna, al suo primo anno di sperimentazione, è appena iniziata. Il “branding” ha come obiettivo quello di posizionare l’Unione europea come il più vicino e ambizioso partner per l’Africa. Il target di riferimento sono giovani africani/e tra i 18 e i 35 anni, che hanno terminato almeno il primo ciclo di studi e con un’infarinatura di politica internazionale. La chiave della campagna è il racconto di persone reali, cittadini africani che hanno beneficiato dei progetti europei, creando valore, occupazione, ricchezza. Gli stati coinvolti sono l’Angola, la Costa d’Avorio, l’Etiopia, il Ghana, il Kenya, lo Zambia e il Senegal. Un’offensiva transnazionale e un lavoro di cesellatura diplomatica estremamente complesso che ha preso forma attraverso vari step. Per dieci mesi i responsabili del progetto hanno fatto ricerche qualitative e quantitative per capire quale potesse il gancio ideale, il codice culturale da utilizzare per veicolare al meglio il messaggio e trasmettere i valori europei. E’ stato necessario adattare il messaggio a ogni paese. Per fare questo ci si è mossi con un agenzia europea di ricerche statistiche e ci si è affidati alla Ogilvy, una delle più importanti agenzie pubblicitarie al mondo.
Finita la fase di studio, analisi e ricerca è stato scelto come claim della campagna “We see”. Uno slogan pensato proprio per superare il pregiudizio neocolonialista e imporre un cambio di paradigma comunicativo. L’idea di fondo è quella di riprendere la forma di saluto africana, l’ “I see you” che implica il riconoscimento di chi si ha davanti, un modo per dire “tu sei importante per me”. Quindi: “When we see our future, We see Africa”. Il lockup, ovvero la chiusura degli spot, è invece all’insegna del legame indissolubile tra il Vecchio continente e il Continente nero: “Africa and European Union: Together, tomorrow, today”.
I video non sono visibili in Europa perché per ragioni di budget si è deciso di non acquistare dalle varie star ingaggiate i diritti per il Vecchio continente. Sono comunque improntati alla trasmissione di un senso di energia positiva - “l’energia di oggi e la promessa del domani” - attraverso colori vivaci e messaggi inclusivi e rassicuranti. Un’Africa “cool”, piena di idee, crepitante di ambizione e creatività. La messa in onda sta partendo nei vari paesi attraverso cartelloni 6x3, trasmissione sulle tv nazionali, messaggi sui social media, installazioni permanenti, concerti organizzati da star nazionali, oltre agli spot sulle radio che in Africa hanno una enorme importanza strategica. Durerà sei mesi, modulata su tempi diversi per evitare i periodi elettorali. A fine anno poi si farà un audit per misurare i risultati della campagna.
Il problema è superare il peccato originale, il marchio ancora stampato a fuoco, ovvero quella percezione neocoloniale che l’Europa sconta per ovvie ragioni storiche. “Dobbiamo riconoscere i nostri errori comunicativi, ci stiamo rendendo conto sul campo che gli africani non hanno idea di ciò che l’Unione europea fa in Africa” dice una fonte comunitaria. “Così come è altrettanto vero che neppure gli europei sanno ciò che facciamo in Africa e in generale cosa accade in Africa”.
In questo discorso si inserisce naturalmente il fattore Cina. Fin dalla fine del 1900, i giovani africani sono regolarmente invitati a studiare in Cina, mentre negli ultimi mesi il gigante asiatico ha prontamente fornito assistenza sanitaria e ha aumentato gli aiuti bilaterali donando attrezzature di vario genere (test, abbigliamento/attrezzature speciali, mascherine), inviando personale sanitario e condividendo il proprio know-how, ribadendo così l’importanza dell’Africa per la sua crescita economica di lungo periodo e per la sua sfera d’influenza. La ventennale politica di conquista del continente si è sviluppata attraverso l’investimento nella tv, nei nuovi media, nell’enorme rete degli Istituti Confucio, l’insegnamento della lingua cinese all’interno dell’offerta formativa delle scuole africane e i programmi universitari con le università africane. Una dottrina delle relazioni costruita nel caso cinese in un meccanismo win-win, ossia una relazione tra vincitori e non tra vincitori e vinti come invece viene vissuto il rapporto con gli europei. Che ora iniziano a giocare sullo stesso terreno cinese, cercando di ribaltare questo deficit di percezione e ricostruire l’immagine dell’Europa, chissà con quali risultati.