Neoeletto presidente, Xi Jinping dichiarò che il Sogno cinese doveva essere raggiunto percorrendo una via cinese (LaPresse)

La "via cinese"

Leggere Carl Schmitt a Pechino

Damiano Palano

Per legittimare l’autoritarismo, i giovani della nuova Cina preferiscono il filosofo-giurista tedesco a Karl Marx

Nella primavera del 1969 Carl Schmitt ricevette nella sua casa di Plettenberg il sinologo Joachim Schickel. Trasmessa alla radio alcuni giorni dopo, la conversazione mise uno di fronte all’altro due intellettuali dai percorsi quanto meno distanti. Da una parte stava uno Schmitt ormai ultraottantenne, che dalla fine della guerra viveva ritirato nella sua cittadina natale, per molti versi inchiodato al ruolo di Kronjurist del Terzo Reich. Dall’altro lato, si trovava invece un “maoista” come Schickel, che negli anni precedenti con le sue traduzioni aveva contribuito non poco ad alimentare in Germania il mito della “grande rivoluzione culturale”. A spingere il sinologo sulla strada di Plettenberg era stata però l’attenzione che Schmitt nella Teoria del partigiano aveva riservato a Mao, definito come la manifestazione eclatante del “partigiano tellurico”, oltre che l’anticipatore dell’“idea pluralistica di un nuovo Nomos della terra”.

 

Negli anni Sessanta, l’Occidente lesse le opere di Mao spesso fraintendendone i termini e utilizzando l’immagine di una “rivoluzione culturale” per finalità molto lontane da quelle originarie. Mentre conversava con Schickel, Schmitt probabilmente non immaginava che, mezzo secolo dopo, alle sue opere sarebbe accaduto in Cina qualcosa di simile. I giovani cinesi certo non marciano oggi sventolando copie del Concetto del ‘politico’, ma, negli ultimi anni, una schiera nutrita di giuristi, filosofi e intellettuali della Repubblica popolare si è rivolta con interesse alle tesi dello studioso tedesco, tanto che diversi osservatori misurano da qualche tempo la temperatura crescente della “febbre di Schmitt”. Alcuni anni fa la sinologa italiana Floria Sapio ha sottolineato come alcune delle suggestive formule del pensatore di Plettenberg – la distinzione tra amico e nemico, lo “stato di eccezione”, il “decisionismo” – si prestino a essere utilizzate, anche grazie alla loro semplicità, per sostenere posizioni nazionaliste e per giustificare il controllo politico della popolazione. Più di recente sull’Atlantic Chang Che ha richiamato i legami tra Schmitt e la Germania hitleriana, per sostenere che gli intellettuali cinesi riconducibili al cosiddetto movimento “statalista” guardano oggi al pensatore tedesco per riaffermare la necessità di uno Stato forte: uno Stato, cioè, che vorrebbero ancora più energico nella repressione dei “nemici interni”, rappresentati per esempio dai dissidenti e dai contestatori di Hong Kong.

 

Così, le teorie del giurista, come osserva Jackson Reinhardt su Inquiries, potrebbero anche offrire al Partito comunista uno strumento per sfruttare politicamente la frustrazione e l’aggressività dei settori giovanili, oltre che per erigere un edificio ideologico in parte nuovo. Queste spiegazioni colgono senz’altro alcuni dei motivi alla base della “febbre” di oggi, che però è anche un risultato del modo in cui le tesi schmittiane sono state recepite in Cina nel corso di quasi novant’anni, e soprattutto nell’ultimo quarto di secolo. La prima tappa della lunga storia della ricezione cinese di Schmitt – recentemente ricostruita da Ryan Martinez Mitchell – ci riporta in effetti agli anni Trenta. L’interesse registrato allora rimase comunque un fenomeno circoscritto ad alcuni studiosi e circoli intellettuali. In seguito, anche quegli accademici che si erano interessati al suo pensiero imboccarono però altre strade. E il marchio politico che era stato impresso a Schmitt certo non favorì la diffusione delle sue opere. Verso la fine della Guerra fredda, i suoi lavori tornarono invece a essere letti innanzitutto a Taiwan. In particolare, Wu Jeng riconobbe l’importanza della sua prospettiva sia per impostare un’indagine ‘realistica’ del diritto, sia per mettere in guardia dai rischi di una troppo rapida liberalizzazione politica del Paese.

 

Nella Repubblica popolare, il nome del pensatore di Plettenberg tornò invece a circolare solo qualche anno dopo. Un passaggio cruciale fu compiuto però soprattutto con il lavoro di Liu Xiaofeng, professore di Teoria politica all’Università Renmin di Pechino, che – come ha sottolineato anche Charlotte Kroll – ha davvero “spianato la via” alla diffusione del pensiero schmittiano in Cina. Secondo Martinez Mitchell, la fortuna conosciuta da Schmitt nell’ultimo ventennio è riconducibile soprattutto a due motivazioni. In primo luogo, si tratterebbe di una reazione all’“occidentalizzazione” del dibattito accademico cinese, che, a partire dal nuovo millennio, avrebbe recepito modelli teorici provenienti dall’Europa e dagli Stati Uniti. In altre parole, la “febbre” di Schmitt sarebbe il frutto del tentativo di contrastare la diffusione delle opere di pensatori come John Stuart Mill, Friedrich von Hayek e John Rawls. In secondo luogo, la fortuna schmittiana sarebbe legata alla possibilità di utilizzare le tesi del giurista per indirizzare la politica interna cinese, senza però incorrere negli artigli della censura.

 

In una recente rassegna, Xie Libin e Haig Patapan hanno sostenuto che gli utilizzi di Schmitt si inscrivono soprattutto all’interno della discussione sul “Sogno cinese”, inaugurata da Xi Jinping nel marzo 2013. Neoeletto presidente, Xi dichiarò infatti che il Sogno cinese doveva essere raggiunto percorrendo una “via cinese”: si trattava cioè di un modello sociale, politico ed economico ben diverso dall’American dream e capace di tenere conto della storia, delle tradizioni e dell’identità del Paese. Un primo rilevante utilizzo del pensiero schmittiano va proprio in questa direzione. Chen Duanhong riprende per esempio l’idea di “costituzione assoluta” proposta del giurista con l’obiettivo di legittimare il ruolo di guida del Pcc. Per Schmitt la “costituzione assoluta” identificava innanzitutto “la concreta condizione generale dell’unità politica e dell’ordinamento sociale di un determinato Stato”. E, sulla scorta di una simile definizione, Chen – con qualche forzatura – riconosce il perno del sistema cinese non nel popolo, nella classe operaia e nei contadini – evocati invece nei primi due articoli della Costituzione di Pechino – bensì nel Partito comunista. In parte diverso è l’utilizzo proposto dalla “nuova sinistra”, e cioè da quegli intellettuali che criticano il capitalismo cinese di oggi, oltre che (implicitamente) la direzione del Pcc, ritenuta di fatto collusa con i grandi attori economici. In sostanza, la “nuova sinistra” sogna un ritorno alla stagione maoista, ma non attinge agli strumenti classici del marxismo.

 

Tende piuttosto a utilizzare concetti mutuati dalla Teoria critica occidentale e dai diversi filoni del pensiero radicale emersi nell’ultimo trentennio. A differenza dei teorici della “via cinese”, gli esponenti della “nuova sinistra” non si caratterizzano per posizioni nazionaliste, ma principalmente per un’impronta fortemente statalista. Sostengono cioè la necessità di riaffermare la piena autorità dello Stato sul mercato e sugli attori socio-economici. In questo quadro, le formule schmittiane sostituiscono i vecchi concetti-chiave del marxismo-leninismo. L’idea dello “stato di eccezione” serve per sostenere che il Pcc può prendere decisioni anche al di fuori della legge per difendere la stabilità dello Stato. Un intellettuale come Wang Hu riprende invece l’idea della contrapposizione tra “amico” e “nemico” per auspicare una “ripoliticizzazione” del sistema cinese, “depoliticizzatosi” a seguito dell’estensione del mercato e della modernizzazione economica. Infine, la vecchia polemica schmittiana contro il parlamentarismo e il liberalismo viene indirizzata contro la richiesta di estendere la protezione dei diritti individuali, avanzata nel corso dell’ultimo ventennio da vari giuristi e intellettuali. Più in generale, la vecchia battaglia contro Weimar viene dunque rispolverata dalla “nuova sinistra” per sostenere che la via cinese alla democrazia non deve passare dal sistema parlamentare, bensì dal modello di partecipazione popolare della “rivoluzione culturale”.

 

La fortuna delle tesi schmittiane ha innescato una reazione da parte degli intellettuali “liberali”, che hanno sottolineato tra l’altro le enormi (e difficilmente negabili) differenze tra l’assetto di Weimar e la Cina di oggi. Più di recente, specialmente dopo la traduzione nel 2017 del Nomos della terra, anche gli scritti ‘internazionalistici’ di Schmitt e l’idea del Grossraum hanno inoltre incontrato un certo interesse. L’idea di un “grande spazio” potrebbe infatti contribuire alla definizione di un nuovo ordine regionale in Asia, sulla base di una sorta di Dottrina Monroe cinese. Per ora un simile sviluppo è stato però solo evocato, per esempio da Liu Xiaofeng, che ha indicato nel Nomos della terra un esempio di “storia globale” particolarmente utile nella prospettiva dell’ascesa globale di Pechino. Negli ultimi anni la visione del Grossraum ha comunque fatto talvolta capolino nelle discussioni su Hong Kong, oltre che nelle analisi sul controllo delle vie navigazione. E non è improbabile che su questo tasto si tornerà a battere anche nei prossimi anni. Conversando con Schmitt alla fine degli anni Sessanta, Schickel notava come l’idea della “guerra popolare” di Mao si poggiasse su principi dialettici, in qualche misura vicini alla filosofia hegeliana. Su questo punto Schmitt rimaneva però piuttosto tiepido, perché tra la concezione occidentale della dialettica e quella orientale restava “una lontananza infinita”.

 

“Non solo il mondo, anche la lingua, la scrittura di questi saggi e strateghi cinesi”, osservava, “è infinitamente lontana dalla nostra lingua e dalla nostra scrittura, anche dal nostro modo di pensare”. Quella lontananza non impedì però ai giovani europei di appropriarsi degli slogan maoisti, senza grandi cautele filologiche. E oggi non impedisce che le formule di Schmitt vengano adottate dagli intellettuali cinesi per condurre battaglie sugli assetti della Repubblica popolare e sulle sue strategie di modernizzazione. La discussione condotta in questi anni, sottolineano Xie Libin e Patapan, non offre in effetti contributi significativi alla lettura di Schmitt. Più che per decifrare il pensiero del giurista tedesco, le riletture compiute in Cina sono però davvero utili per comprendere le logiche di un dibattito che si svolge sotto l’occhio vigile (e la censura) del Pcc. E in questo senso, fornisce soprattutto un’emblematica dimostrazione del sostanziale abbandono del marxismo da parte degli intellettuali cinesi. Anche nel caso in cui ambiscano a rivitalizzare il maoismo, gli esponenti della “nuova sinistra” attingono infatti ad altre fonti, ben diverse da quelle usurate dalla retorica del regime. Non si tratta di un fenomeno del tutto sorprendente, perché anche in Occidente la “globalizzazione di Schmitt” – come l’ha definita Jan Werner Müller – ha avuto in gran parte come protagonisti studiosi post-marxisti. Ma la “febbre” che si registra oggi nel Paese della Grande Muraglia è anche estremamente interessante per comprendere come concetti costruiti nel Vecchio continente vengano oggi riplasmati in un contesto dalle radici culturali davvero differenti. E, dunque, per riconoscere come il pensiero di autori saldamente radicati nella tradizione occidentale sia impiegato, ben oltre il perimetro del Vecchio continente, come strumento per nuove battaglie culturali e politiche. Tutto questo non avrebbe probabilmente sorpreso Schmitt. In un passaggio famoso scrisse infatti che “tutti i concetti, le espressioni e i termini politici hanno un senso polemico”. Nei mille utilizzi del suo stesso pensiero, il vecchio giurista di Plettemberg avrebbe così riconosciuto le tracce dell’immancabile riemergere dell’eterna contrapposizione tra “amici” e “nemici”. E la “febbre di Schmitt” (con tutti i suoi fraintendimenti), ai suoi occhi, avrebbe così rafforzato, una volta di più, la convinzione che, dal punto di vista politico, il mondo – anche il mondo in cui viviamo, in larga parte unificato dalla tecnica – è sempre destinato a presentarsi come un pluriversum, impossibile da costringere in una forma unitaria.

 

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