questa non è una vittoria

Il nuovo parco del presidente Aliyev

Gli elmetti armeni esposti a Baku sono un abuso della sconfitta della guerra del Nagorno-Karabakh

Micol Flammini

La guerra nel Nagorno-Karabakh si è conclusa da quattro mesi con tre vincitori e un vinto: l’Armenia. Nel campo affollato dei vincitori ci sono gli azeri, contro i quali combattevano gli armeni, i turchi, che sostenevano gli azeri, e i russi. Ci si aspettava che, per come sono sempre andate le cose, i russi   appoggiassero Yerevan e  sostenessero l’esercito armeno. Ma di morire per Yerevan il Cremlino non ne aveva intenzione. All’Armenia ha dato le armi, con gli altri, invece, Mosca si è messa d’accordo. Chi ha vinto più di tutti è stato l’Azerbaigian, che senza la Turchia e senza una Russia così disinteressata alla causa armena, non avrebbe mai vinto. Il Nagorno-Karabakh, regione a maggioranza armena dentro al territorio azero, è contesa da tempo tra le due nazioni, ma la guerra che ha portato agli ultimi accordi è durata sei settimane, con perdite talmente ingenti, sia tra  gli azeri sia tra  gli armeni, che ancora sfuggono i dati esatti.

 

Gli armeni raccontano di una generazione scomparsa di soldati giovanissimi partiti a combattere. Al fronte c’era anche la moglie del premier Nikol Pashinyan, che quando suo marito ha ceduto all’accordo non voleva andarsene, non voleva lasciare quelle terre dalle quali tanti armeni sono stati cacciati. La guerra è persa, il premier Pashinyan ha dovuto accettare le elezioni anticipate, lui simbolo di un forte cambiamento, di una rivoluzione di velluto di due anni fa di cui gli armeni vanno ancora molto fieri –  ma adesso da lui, per quell’accordo, in tanti si sentono traditi.

 

Il Nagorno-Karabakh è grande quanto una ferita per la storia armena, e non c’è verso che si rimargini. Gli azeri, con il loro presidente sempre in mimetica, Ilham Aliyev, hanno detto che si prenderanno cura di quelle zone, ma finora sta succedendo il contrario: hanno cacciato gli armeni e vogliono liberarsi anche dei loro simboli. Lunedì Aliyev, che parla spesso di riconciliazione,  a Baku, capitale dell’Azerbaigian, ha inaugurato un parco per mostrare i trofei della guerra nel Nagorno-Karabakh, ma più che apparire una mostra sulla vittoria azera, appare come una mostra sulla sconfitta armena: armi dei vinti, manichini vestiti con le uniformi dei soldati di Yerevan, in posa mentre scappano, mentre muoiono, mentre vengono fatti prigionieri. 

 

 

Aliyev si è fatto fotografare mentre visitava il museo, in uno scatto si vede mentre entra in una stanza piena di elmetti alle pareti. Sono gli elmi dei soldati armeni caduti, esposti come trofei, a simbolo della vittoria, della prevaricazione, della fine di una guerra che ha lasciato Yerevan senza pace. Sono i corpi dell’Armenia sconfitta più che le medaglie dell’Azerbaigian vittorioso. Il parco è il segno dolorosissimo di una guerra senza rispetto, in cui il vincitore non è felice della vittoria, ma dell’arroganza che può sfoggiare contro chi è rimasto senza terra, senza soldati, a contare i morti e sorreggere una democrazia giovanissima che ha bisogno di cure, di attenzioni, di pace per non essere danneggiata. 

 

 

Le guerre si vincono e si perdono, ma poi, soprattutto ai vincitori, spetta il compito di rimettere a posto i pezzi della guerra e questo non si fa con una mostra. Altrimenti non è una vittoria, è soltanto l’abuso di una sconfitta.

 

(foto dal sito della presidenza azera)

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  • Micol Flammini
  • Micol Flammini è giornalista del Foglio. Scrive di Europa, soprattutto orientale, di Russia, di Israele, di storie, di personaggi, qualche volta di libri, calpestando volentieri il confine tra politica internazionale e letteratura. Ha studiato tra Udine e Cracovia, tra Mosca e Varsavia e si è ritrovata a Roma, un po’ per lavoro, tanto per amore. Nel Foglio cura la rubrica EuPorn, un romanzo a puntate sull'Unione europea, scritto su carta e "a voce". E' autrice del podcast "Diventare Zelensky". In libreria con "La cortina di vetro" (Mondadori)