La pace, le cannoniere e i confetti
Kabul o la Siria? L'occidente i danni li commette quando rinuncia a esportare la libertà
Imporre con la forza e con il burro una funzione democratica e imperiale dell’occidente contro la rivoluzione islamica dispiegata: che esista un’alternativa nessuno finora ha saputo spiegarlo, neanche con il sopracciò della Realpolitik debole e introversa
I sapientoni della Realpolitik debole e introversa insistono: tenersi lontano dall’Afghanistan, dall’Iraq, dalla Siria, dall’Iran. Che errori le guerre di Bush Jr., aggiungono, sono costate vite e denari e hanno portato nient’altro che sconfitte. Accendi la radio, apri un giornale, e senti continuamente la solfa, e la ascolti attonito qui in Europa dove la vittoria alleata ha ripristinato democrazia e pace contro i totalitarismi per quasi un secolo, secondo cui la libertà non si esporta con le cannoniere. Che scemenza.
In Afghanistan, retrovia e infrastruttura del terrorismo internazionale che ebbe il suo culmine l’11 settembre con il bombardamento di New York e Washington, americani e alleati occidentali della Nato sono stati per vent’anni, che ora cerchino una via d’uscita, e qui non c’è praticamente differenza fra un Trump e un Biden, è comprensibile ma non giustificabile. L’opinione diffusa pensa che la libertà si difende con i confetti e che la politica del piede di casa è sempre la soluzione preferibile. I costi politici e etici dell’inazione non sono un suo problema. Si sa che l’impasto di guerra teologica e tribale fra quelle montagne è esplosivo, che una vittoria in senso classico è da sempre impossibile come dimostrano le avventure coloniali degli inglesi, quelle imperialistiche dei russi sovietici, quelle delle democrazie d’occidente. Però i terroristi islamisti delle Twin Towers e il loro capo ebbero il colpo che si meritavano. I talebani finirono per così dire all’opposizione e controllano la metà del paese dalle caverne e dai passi in cui si sono rintanati a combattere una infinita guerra di resistenza nutrita di sogni dogmi e incubi; con la guerra americana e alleata hanno resistito, mentre il paese lunare votava e cercava disperatamente una strada sensata, terrestre, non di teologia sunnita armata, con il ritiro minacciano il ritorno al potere. Centomila morti, si dice.
In Siria sono cinque volte tanti in soli cinque anni, per non parlare dei profughi e della distruzione di una civiltà antica e possente. Lì l’occidente ha rinunciato a esportare la libertà con le cannoniere, malgrado l’uso sterminatore delle armi chimiche, si sono dunque rafforzati i russi, gli alauiti, i turchi di Erdogan a caccia di curdi, gli iraniani pasdaran, e ne hanno fatto le spese umanità e stabilità pacifica della regione. Non fosse stato per la guerra mirata e cibernetica di Israele, gli ayatollah avrebbero già la bomba atomica, e il ritiro delle sanzioni previsto con l’aggiornamento dell’accordo sul nucleare ridarebbe alla rivoluzione islamista e ai suoi sacerdoti tutto il potere che hanno finora dovuto mantenere schiacciando opposizione e dissenso. Quanto all’Iraq, non sulla guerra a Saddam, ma sul suo smantellamento e sulla ritirata strategica nacque lo Stato islamico califfale di Mosul, disperso dopo infiniti lutti ma sempre in grado, di smantellamento in smantellamento, di rifarsi vivo.
Imporre con la forza e con il burro una funzione democratica e imperiale dell’occidente contro la rivoluzione islamica dispiegata: che esista un’alternativa nessuno finora ha saputo spiegarlo, neanche con il sopracciò della Realpolitik debole e introversa. O meglio, una alternativa c’è, come dimostrano Siria e Iran prenucleare, tra gli attivismi russi, turchi e cinesi del dopo Bush Jr.: convivere con l’orrore e subirlo. Gli adoratori dei confetti si succhieranno il palato con gusto.