Ai confini del Myanmar
Anche i nomi delle etnie cambiano lungo lo stesso fiume e ogni ipotesi di alleanza per superare la guerra civile sembra irreale. Qui si aspettano i profughi e non si fa che ripetere: sembra la Siria
Nel sud-est asiatico il Capodanno cade tra fine marzo e metà aprile, quando il sole passa nella costellazione dell’ariete. E’ celebrato con una festa che si protrae almeno una settimana. In Thailandia è chiamata Songkran, in Birmania Thingyan, da una parola dell’antico sanscrito che significa cambiamento. La ricorrenza segna anche il passaggio alla stagione delle piogge e in origine era di rito l’aspersione reciproca per mondarsi dei peccati. Poi si è trasformata in un baccanale acquatico, l’occasione per trasgredire.
Quest’anno, sia in Thailandia sia in Birmania, le strade sono vuote. In Thailandia è per quella che sembra la seconda ondata del Covid. In Birmania è un segno di sfida per la giunta militare che invece proclama un’assurda normalità. Proprio nel giorno canonico del Thingyan, il 13 aprile, l’alto commissario delle Nazioni Unite per i diritti umani ha dichiarato che la situazione in Myanmar potrebbe degenerare in un conflitto come quello siriano.
Osservare il Thingyan birmano da una Bangkok nel suo secondo Songkran pandemico non è solo la verifica della teoria delle catastrofi, la descrizione dei modi in cui un sistema può collassare. E’ il segno di come i riti, i miti dell’inconscio collettivo locale stiano mutando come il virus. E’ anche il pretesto per ripercorrere un itinerario tra i territori in cui quei miti nascono e mutano, tra le foreste, le valli, i fiumi, i villaggi ai cui margini è isolato in quarantena chi ritorna a casa da altri villaggi. Dove si colgono immagini che appaiono simboli, come le farfalle nella foresta – sembrano piccole foglie al vento e come le foglie cadono al termine della loro breve vita – lungo un sentiero del Wat Pha That Doi Wao.
Da quel monastero sopra Mae Sai, la cittadina più a nord della Thailandia, osservi la Birmania: in prospettiva, il Naga, il serpente gigante della mitologia vedica, che si allunga sulle scalinate del monastero, appare avviluppato nelle spire di filo spinato sulla sponda del fiume Ruak. Disteso oltre un anno fa per impedire il passaggio di potenziali portatori di Covid, oggi dovrebbe bloccare i profughi in fuga dagli attacchi dell’esercito birmano. Ma qui il traffico maggiore è in direzione opposta, come dimostra un carico d’armi sequestrato a inizio aprile e destinato a trafficanti di droga o milizie etniche (distinzione sottile). Mae Sai è da sempre il paradigma del centro di scambi: qui venivano vendute ai birmani merci prodotte in Cina e importate in Thailandia.
E’ un percorso, quello che passa da Mae Sai e poi scende a sud-ovest, in cui le analisi di scenario si intrecciano ai temi delle etnie e della religione. La mappa diventa un territorio dove i nomi stessi delle etnie cambiano lungo il corso del fiume. Qui si comprende perché ogni ipotesi “razionale” di tattiche, alleanze, governi paralleli, su cui si discute per il futuro della Birmania, sull’orlo di una guerra civile o di un compromesso storico, di un contro golpe o di una restaurazione, non può svilupparsi secondo i codici degli istituti di studi strategici. Bisogna entrare nel territorio, o almeno avvicinarsi, toccare il filo spinato sin quasi a tagliarsi, per provare a capire ciò che accade.
E’ la versione di ciò che tanti anni fa raccontava Hans, un pastore metodista arrivato in Oriente sulle orme di Siddhartha, che aveva scelto la Thailandia come terra di missione ed era finito in uno sperduto villaggio di etnia karen al confine con la Birmania. “Dovevo cercare un punto di contatto, un modo di comunicare il Verbo”, aveva raccontato. “L’ho trovato studiando i loro miti e i loro sogni. Sono simili a quelli della Bibbia”. Le consonanze, in effetti, sono molte. A cominciare dal Nome di Dio: Y’wa, per i karen. Cercando quelle consonanze Hans si era quasi perduto nella cultura animistica, nella foresta che per centinaia di chilometri copre le montagne e le valli lungo il corso dei fiumi Salwen e Moei, che segnano il confine tra Thailandia e Birmania. A poco a poco lui stesso aveva cominciato a sentire affinità con i wi e i k’thi thra, i profeti e gli sciamani karen.
“Non ci sono più gli sciamani, non hanno trovato chi volesse seguire il loro cammino”, dice al Foglio padre Valerio, un missionario cattolico che ha la sua parrocchia nel remoto villaggio di Ban Thoet Thai, sul fondo di una stretta valle in un territorio che forma un becco d’anatra incuneato in Birmania. Il villaggio era famoso per essere una base di Khun Sa, il Signore della guerra mezzo cinese e mezzo shan che tra gli anni ’60 e ’70, al comando dei ventimila uomini della milizia shan, controllava il traffico di oppio ed eroina nel Triangolo d’Oro, qualche decina di chilometri a est, dove il Mekong segna il confine tra Laos, Thailandia e Birmania. Di Khun Sa resta un museo abbandonato e una statua dorata che lo raffigura a cavallo, un’enorme rivoltella alla cintura. Restano i peccati, tutti connessi alla droga. E padre Valerio sa riconoscerne le diverse declinazioni e gravità.
I sacerdoti prendono il posto degli sciamani. “Gli animisti sono più permeabili alla conversione perché, oltre l’immanenza degli spiriti nella natura, c’è l’idea di un Dio unico”, dice il missionario, che rileva nei “pagani” una concezione che potrebbe prestarsi a false similitudini col cristianesimo: “Vivono in attesa della morte, in funzione della morte”. Un’idea che andrebbe tenuta presente quando si discetta di eserciti etnici.
Padre Valerio celebra la messa e predica in Thai, poi viene tradotto dal suo catechista, di etnia Akha, in uno dei linguaggi dei gruppi che popolano l’area: akha, soprattutto, ma anche shan e wa, noti come ex tagliatori di teste, di cui forse ne rimane ancora in vita qualcuno, e poi tai lü, lahu, hmong, lua e lisu. Dipende dal villaggio. Molti dei suoi parrocchiani provengono da Kentung, al margine orientale dello stato Shan, al confine con la Cina. Osservando le linee di confine si comprende l’influenza di Pechino sulle etnie del nord-est birmano.
Con padre Valerio – parlando di “pagani” e tribali (per lui non sono sinonimi), sette evangeliche che comprano anime, animismo, latifondismo (le piantagioni di tè sono spesso di proprietà cinese o sino-thai), contrabbandieri – si raggiunge un villaggio tra colline coperte da piantagioni di tè, il cui cimitero (cinese e cristiano) è a un centinaio di metri dal confine con la Birmania. Sembra la versione tropicale del “deserto dei tartari”, al margine di una “irreparabile fuga nel tempo”. Anche qui si attende: un attacco di Tatmadaw, l’esercito del Myanmar, contro i villaggi shan o wa che provocherebbe un’ondata di profughi verso la Thailandia. Ma che potrebbe anche colpire i vicini villaggi thai. Ipotesi calcolata dall’esercito thai, che ha predisposto l’evacuazione dei villaggi thai verso zone più lontane dal confine. Mentre gli stessi villaggi sarebbero desinati ai profughi birmani. Tutte notizie riferite dall’interprete di padre Valerio, che non vuole dare informazioni più precise. “I birmani sanno tutto, vedono tutto”, dice. Soprattutto tra le minoranze etniche, Tatmadaw assume una dimensione oscura. “L’esercito birmano è pazzo, come un tossico di ya ba”, ha dichiarato un rappresentante di una delle organizzazioni shan. Sembra si riferisca agli spiriti dei morti per eccesso di ya ba, la droga che “rende pazzi”.
Tra etnie spesso sconosciute come le loro lingue, organizzazioni che le rappresentano, eserciti che ne sono il braccio armato e narcomilizie, alleanze tra milizie che si sono combattute tra loro, gruppi ed eserciti che avevano siglato una tregua con Tatmadaw e poi l’hanno violata attaccando avamposti militari (nel nord dello Shan) oppure per difendere i villaggi dagli attacchi degli eserciti, gruppi che sono rimasti silenti nella condanna del colpo di stato e altri che hanno dichiarato il sostegno al Civil Disobedience Movement, gruppi e milizie che fingono l’opposizione ai militari mentre trattano con loro, trafficanti in attesa di decidere le alleanze, la Birmania diventa una perfetta “Giungla degli Specchi”. James Angleton, capo della sezione controspionaggio della Cia dal 1954 al ’75, definiva così le situazioni dominate dall’ambiguità, dalla finzione, dai continui colpi di scena. Soprattutto quando la scena è l’Indocina.
Ecco perché il paragone sempre più frequente per definire l’evolversi della situazione birmana è quello con la Siria. Un paragone che nasce sia dalle forze in campo, eserciti regolari e milizie etniche o religiose. Anche in questo caso, molte milizie, oltre che per etnia si distinguono per religione: buddisti, nella maggior parte dei casi, ma anche musulmani (come il gruppo armato dei rohingya) o cristiani (soprattutto karen e kachin). Anche in questo caso le milizie sono spesso state in conflitto tra loro, cadendo nella trappola del divide et impera del Tatmadaw. Dopo il colpo di stato la loro unione è divenuta una specie di chimera per i movimenti d’opposizione, compresa la National League for Democracy che aveva sempre ignorato le minoranze. Gli stessi bamar, l’etnia maggioritaria che aveva considerato i movimenti etnici come una minaccia all’unità nazionale, ora vagheggiano un “esercito federale”. Ma anche nel caso si costituisse, non riuscirebbe a opporsi al Tatmadaw. Come rileva Anthony Davis, analista di questioni militari, i gruppi etnici possono contare su un totale di circa 78 mila uomini contro i 350 mila del Tatmadaw, che dispone di artiglieria pesante, carri armati, aerei cinesi ed elicotteri russi. Secondo Davis “è il classico scontro tra Davide e Golia”, in cui Davide può solo adottare le tattiche di guerriglia sfruttando la conoscenza del terreno. Ma proprio perché così legato al territorio non ha capacità di proiezione. L’unica possibilità è un’anomala alleanza tra milizie e movimenti di disobbedienza civile: “Nelle città ci sono giovani donne e uomini pronti a combattere, quello che gli manca sono le armi, l’organizzazione e l’addestramento” ha dichiarato Davis, secondo il quale solo le milizie possono cambiare la situazione.
“L’esercito federale esiste già. In teoria. Anche la guerra civile c’è già. Non è mai finita. Solo che prima c’erano i cessate il fuoco. Adesso si rischia di finire come in Siria”, dice David Eubank nell’intervista concessa al Foglio nel suo “ranch” nei dintorni di Chiang Mai, la capitale del nord thailandese, poche ore prima di partire per una missione in territorio birmano. Ex ufficiale dei Ranger americani, pastore evangelico, Eubank è il fondatore dei Free Burma Rangers (Fbr), organizzazione “multietnica e multiconfessionale” che ha per obiettivo “portare aiuto, amore, speranza. L’aiuto è soprattutto medico ma è anche un gesto, un’attenzione”, dice Eubank, che ha portato quest’aiuto, oltre che in Birmania, in Iraq, Siria, Kurdistan, Somalia. “Non siamo una milizia. E non siamo pacifisti”, precisa. Le squadre dei Burma Rangers, infatti, sono libere di difendersi con le armi nel caso siano attaccate (è nel pick-up che trasporta le armi che i Free Burma Rangers ci danno un passaggio, salutando con l’ennesimo “God Bless You”).
Con un personaggio come David è difficile sfuggire alla tentazione di una sceneggiatura alla “Rambo IV” in cui l’eroe interpretato da Stallone combatte il “demone oppressore” nella giungla birmana. Ma è un fatto che la sceneggiatura di quel film del 2008 – proibito in Birmania ma divenuto un blockbuster in dvd pirata – sia in buona parte tratta dai rapporti di Fbr.
“Il diavolo è stupido. Si fanno cose senza ragione. Senza amore non c’è visione. I generali si comportano da diavoli. Peccano di cupidigia, di superbia”, dice, per spiegare il colpo di stato. Più precisa, anche se sommaria, la sua distinzione tra etnie. “I karen sono ben organizzati e costituiscono una minaccia. Sono ancor più pericolosi perché non sono trafficanti, quindi difficili da controllare. I kachin e gli shan sono pericolosi perché sono sostenuti dalla Cina e riforniti di armi pesanti”. Tutti sono accomunati dalle armi leggere. “Se le costruiscono da soli. E’ incredibile quello che riescono a fare con pezzi di recupero”. Eubank sintetizza così il vero problema di un conflitto tra Tatmadaw e milizie etniche: prima o poi, inevitabilmente, scenderebbero in campo giocatori più forti, la Cina a sostegno di alcune milizie e la Russia vicina ai generali. La Birmania sarà sempre e comunque la scena di un conflitto asimmetrico.
Dopo l’intervista, David e i suoi uomini sono partiti per l’interno della Birmania, nel territorio karen sulla riva occidentale del fiume Salwen. E’ la zona che ai primi di aprile è stata bombardata dall’aviazione birmana per rappresaglia a un attacco karen e dove, si legge nei comunicati di Fbr, i combattimenti continuano. L’ultima tappa di questo percorso lungo i confini è a Ban Mae Sam Laep, sulle rive di quel fiume, una cinquantina di chilometri a sud-est dalla presunta posizione di David. In un altro momento, in un’altra storia sarebbe un bel posto dove trascorrere qualche giorno navigando in canoa per fermarsi in piccole insenature di sabbia bianca, oppure facendo trekking nel Salwen National Park. Oggi il fiume è percorso solo dai gommoni dell’esercito thai e da qualche barca da carico che rifornisce gli spacci dei villaggi rivieraschi. E’ proprio in questa zona, infatti, che circa tremila karen hanno attraversato il fiume per cercare rifugio in Thailandia. Le autorità thailandesi – almeno da quel che risulta al Foglio – ne hanno trattenuti sette in un vicino ospedale per curarli da ferite da scheggia. Poi, a quanto sembra, anche questi sono stati rimandati in Birmania.
“Siamo schiacciati tra il Covid e la guerra”, dice un tenente dell’esercito thai al posto di controllo sulla riva del Salwen. Il tono di voce, lo sguardo, il gesto rassegnato esprimono lo sconcerto per qualcosa che gli sembra una maledizione.
“I miei parenti vivono in Thailandia, vicino al re”, dice una vecchina dagli occhi chiarissimi appannati dal glaucoma che vive in una capanna proprio sopra il fiume. Bangkok diviene un luogo mitico, un empireo. Per lei la sua capanna è ancora Birmania.
La spoon river ai margini dei fiumi che segnano il confine con la Birmania si compone di voci come queste, lontane dalla geopolitica indo-pacifica. Intanto nelle zone centrali continua l’escalation della repressione, mentre a Yangon regna una calma surreale. Forse è l’occhio del ciclone, forse il segno della stanchezza di una popolazione che vuole tornare a una vita normale.
In occidente si aggiorna la conta dei morti. Che non tiene conto dei cadaveri scomparsi, dei desaparecidos, delle vittime nei villaggi isolati. E nemmeno dei soldati uccisi.