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Un dialogo

Un manuale di convivenza per l'America

La bella conversazione tra due giudici della Corte Suprema, Sotomayor e Gorsuch, diversissimi tra loro eppure a caccia dello stesso piacere: per il dissenso, e per la sintesi

Paola Peduzzi

“Le democrazie collassano da dentro”, ha detto Gorsuch, “si sgretolano perché una fazione cerca di imporre la sua volontà sull’altra invece che lavorare insieme per compensare le differenze”. “Le buone maniere, l’ascolto, la tolleranza sono diventati parolacce, e questo mi preoccupa”, ha detto poi, e anche: “La democrazia non è un automatismo, e i nostri nemici lo sanno anche se noi facciamo finta di niente”

Sonia Sotomayor e Neil Gorsuch sono due giudici della Corte suprema americana molto diversi tra loro, non solo perché lei è in quota democratici ed è stata nominata da Barack Obama, e lui è in quota repubblicani ed è stato nominato da Donald Trump. Hanno due storie, due filosofie, due visioni del tutto differenti, di quelle che solitamente definiamo inconciliabili. Ma la Corte suprema è il luogo in cui si deve trovare una sintesi, in cui l’assenza di confronto non è un’opzione.

 

Così, in questi giorni di battaglia sulla riforma della Corte, con una proposta al Congresso che vuole aumentare il numero dei giudici – si chiama “packing the Court”, che è un’espressione perfetta – i due, Sotomayor e Gorsuch, hanno partecipato a una conversazione pubblica al National Security Institute: è una cosa rara, perché i giudici supremi in America parlano poco e difficilmente lo fanno in coppia (una coppia così poco assortita poi). Alcuni hanno pensato che fosse uno spot per la Corte stessa: guardateci, stiamo bene come stiamo, giù le mani. Ma limitarsi a questa interpretazione è poco generoso: il loro dialogo è bellissimo. Nella loro distanza, Sotomayor e Gorsuch ricordano Ruth Bader Ginsburg e Antonin Scalia, due supergiudici ormai scomparsi, che hanno sempre insistito sulla loro amicizia: mai d’accordo una con l’altro, eppure sempre curiosi di conoscere l’opinione l’una dell’altro. Dell’amicizia tra Sotomayor e Gorsuch non si sa granché, ma la loro conversazione è il manifesto di un’America che sta cercando di ritrovare il piacere della convivenza.

 

Donald Trump non è mai stato citato, ma non ce n’era bisogno: l’ex presidente ha approfondito ferite esistenti, le ha fatte sanguinare anche, ma la battaglia della convivenza non è politica, non è tra liberal e repubblicani, è culturale e sociale. “Le democrazie collassano da dentro”, ha detto Gorsuch, “si sgretolano perché una fazione cerca di imporre la sua volontà sull’altra invece che lavorare insieme per compensare le differenze”. “Le buone maniere, l’ascolto, la tolleranza sono diventati parolacce, e questo mi preoccupa”, ha detto poi, e anche: “La democrazia non è un automatismo, e i nostri nemici lo sanno anche se noi facciamo finta di niente”. La Sotomayor ha detto che il dibattito appassionato e anche feroce non è un male: guardate noi come siamo, io e Gorsuch non andiamo d’accordo su nulla, “ma se non ci prendiamo cura di questo dibattito, può trasformarsi in un processo che distrugge il tessuto delle nostre comunità”, annulla “la nostra capacità di parlarci”. E’ a questo che guardano i due giudici (lui dice a lei che i loro scontri sono “rispettosi e amorevoli”, lei dice “e appassionati”, lui finisce: “E appassionati, fa parte dell’amore”), la Corte e anche il presidente Joe Biden: a scrivere il manuale di convivenza di quest’America.

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  • Paola Peduzzi
  • Scrive di politica estera, in particolare di politica europea, inglese e americana. Tiene sul Foglio una rubrica, “Cosmopolitics”, che è un esperimento: raccontare la geopolitica come se fosse una storia d'amore - corteggiamenti e separazioni, confessioni e segreti, guerra e pace. Di recente la storia d'amore di cui si è occupata con cadenza settimanale è quella con l'Europa, con la newsletter e la rubrica “EuPorn – Il lato sexy dell'Europa”. Sposata, ha due figli, Anita e Ferrante. @paolapeduzzi