Realpolitik al Cairo, prima di tutto capire di cosa parliamo
Dare la cittadinanza a Zaki non è un azzardo idealista, è il pressing sull’Egitto che ci conviene
Come dopo l’omicidio di Giulio Regeni, c’è un grande equivoco anche adesso sulla realpolitik e il caso dello studente egiziano Patrick Zaki. Qualcuno dice che all’Italia non conviene prendere posizione e insistere sulla liberazione di Zaki dopo quattordici mesi di detenzione preventiva per non rovinare le relazioni con il presidente egiziano Abdel Fattah al Sisi. Le ragioni più grandi della geopolitica, dice qualcuno, dovrebbero prevalere su questi casi singoli, ci sono interessi troppo più grandi da tenere in considerazione. E’ un fraintendimento pericoloso della politica internazionale e chi lo propone dimostra di non sapere come funziona. A livello internazionale tutti gli stati osservano il grado di forza e di credibilità degli altri stati e si regolano di conseguenza. E’ uno status che si aggiorna di continuo a seconda di come i governi agiscono e delle decisioni che prendono.
Quando il dittatore della Corea del nord Kim Jong Un ha incontrato il presidente americano Donald Trump e in cambio non ha concesso nulla per lui è stato un trionfo, perché ha ottenuto la legittimazione che cercava davanti a una comunità internazionale che lo tratta come un maniaco pericoloso. In quel caso è stato un errore di Trump, che ha dato al coreano quello che voleva senza ricevere nulla. E’ la ragione per la quale a settembre il generale libico Khalifa Haftar ha sequestrato due pescherecci italiani con i loro equipaggi per quasi quattro mesi. Era in crisi di credibilità dopo la sconfitta subita a Tripoli, aveva bisogno di far vedere che è ancora un protagonista e ha ottenuto la visita dell’allora premier italiano Giuseppe Conte e del ministro degli Esteri Luigi Di Maio.
Si potrebbe andare avanti a citare altri episodi. Prendiamo la recente visita di Mario Draghi a Tripoli per incontrare il nuovo primo ministro Abdelhamid Dabaiba. E’ stato un incontro positivo, ma è difficile non notare che nei giorni seguenti Dabaiba ha preso l’aereo assieme ai suoi ministri ed è volato prima ad Ankara e poi a Mosca a incontrare il presidente turco Erdogan e quello russo Putin. Turchia e Russia mandano soldati e armi in Libia e sono disposte a fare la guerra, quindi hanno uno status più forte di quello dell’Italia. Fin qui è pragmatismo politico spicciolo. Ora, nel momento in cui l’Italia accetta senza protestare l’umiliazione del caso Regeni il suo standing, la sua posizione, nel Mediterraneo è lesa in modo gravissimo. Tutti i governi della regione guardano e prendono nota.
L’Italia è così debole che non riesce a ottenere uno straccio di risposta soddisfacente dal Cairo sul caso di un ricercatore trucidato dai servizi di sicurezza egiziani (e qui tralasciamo l’aspetto più ovvio della vicenda: la necessità di giustizia). Il governo di al Sisi ha coperto i misfatti dei suoi servizi di sicurezza e ci tratta con arroganza e sufficienza. Per questo il caso di Patrick Zaki è simbolico e dovrebbe essere preso a cuore da chi tiene alla posizione internazionale dell’Italia. Non è (soltanto) un caso da buone intenzioni sui social, è l’Italia che raddoppia con un gesto di pressing diplomatico su un paese, l’Egitto, che ignora le nostre richieste. L’Italia solleva il caso singolo di Zaki e gli conferisce la cittadinanza italiana per colpire il punto debole di al Sisi, la questione delle decine di migliaia di dissidenti politici e prigionieri di coscienza che sono finiti in prigione anche soltanto per avere raccontato una barzelletta sul governo. Suona come un azzardo? In realtà è il minimo che possiamo fare. Altrimenti prepariamoci a farci trattare dall’Egitto soltanto come l’officina muta del suo materiale militare – spogliati della protezione che un tempo avevamo per il fatto di essere italiani.