La scuola può punire gli studenti per i loro post sui social?
Lo sfogo di una ragazza di 14 anni e il controllo degli insegnanti anche oltre le lezioni in classe. Negli Stati Uniti ne discute la Corte suprema
Vi piacciono le storie della vecchia America in cui una piccola vicenda diviene l’occasione di una guerra culturale, condita da dibattito nazionale? Se è così il modesto episodio che riguarda Brandi Levy, avvenuto quattro anni fa, fa al caso vostro. “Fuck school fuck softball fuck cheer fuck everything” è l’esplicito messaggio che lei, allora quattordicenne, postò su Snapchat, il social effimero, quello i cui messaggi si autocancellano in 24 ore. Il motivo dell’arrabbiatura di Brandi riguardava l’esclusione dalla squadra di cheerleader del suo liceo, la Mahanoy Area High School, di Mahanoy City, in Pennsylvania. Il video, in cui Brandi alza il dito medio, viene registrato da un amico in un fast food e poi viene mostrato da Brandi a una compagna, figlia di una delle allenatrici delle cheerleader.
Così il suo gesto arriva all’attenzione della direzione, che la sospende dall’attività per un anno. La famiglia di Brandi cita in giudizio il liceo, sostenendo che il provvedimento sia lesivo del diritto di libertà di parola, garantito dal Primo emendamento. La tesi è che il post sia stato realizzato fuori dalla scuola e fuori dall’orario delle lezioni e che la scuola non avesse l’autorità di controllare il comportamento di Brandi e di punirla in base a esso.
L’anno scorso la Corte d’appello dello stato ha dato ragione alla ragazza: ciò che gli studenti fanno fuori dalla scuola non ricade sotto la giurisdizione degli istituti – il verdetto non andava esteso ai comportamenti violenti. Brandi si dichiarò soddisfatta: “Volevo provare che dei giovani adulti come me non vanno puniti per aver espresso i propri sentimenti e averli condivisi con gli altri”.
Il liceo però non ha ritenuto conclusa la vicenda e affidandosi a Lisa Blatt, avvocatessa dai formidabili successi in ricorsi del genere, ha sottoposto la questione alla Corte suprema. Secondo la scuola, la condotta degli studenti non va monitorata solo durante le lezioni, tanto più in tempo di Covid, quando la presenza in aula è un’utopia: il controllo deve estendersi 24/7. Aggiungendo che bullismo e razzismo troverebbero giustificazione nel verdetto di assoluzione di Brandi.
Mercoledì i giudici si sono confrontati sulla questione. A rappresentare il caso per Brandi c’era David Cole, della American Civil Liberties Union: “Gli studenti non possono portare la scuola con loro ovunque vadano” e “bisogna lasciare ai ragazzi lo spazio per respirare”, sono stati i suoi argomenti. La Blatt ha replicato che il ruolo della scuola è proprio quello di sorvegliare la condotta dei ragazzi per conto delle famiglie, non importa dove si trovino.
I giudici sono apparsi cauti, perché i confini della libertà d’espressione costituiscono uno dei valori-base di cui sono guardiani. Di mettere le mani al Primo emendamento non se ne parla, hanno fatto sapere. Il giudice Stephen Breyer ha aggiunto che se si trattasse di perseguire la volgarità verbale dei ragazzi fuori dalla scuola, ci sarebbe da farsi venire un mal di testa. Comunque il verdetto arriverà a giugno. Ma intanto i media si sono scaldati sull’ostinazione di Brandi nel difendere i suoi diritti teenageriali e sugli allarmi della scuola: davvero volete più caos per i vostri figli? Noi aggiungiamo un paio di considerazioni: un anno di sospensione è una punizione dura per chi vuol essere parte di una squadra. E’ un giudizio senza appello. E poi Snapchat è fatto apposta per non pentirci domani di quel che abbiamo detto oggi. Brandi si è arrabbiata col mondo e il giorno dopo magari le sarebbe passata, non ci fosse stata la spiata. La giudice Sonia Sotomayor ha commentato incredula: “Brandi viene punita perché è andata su internet a sfogarsi?”. In sostanza: che incacchiarsi rimanga un’opzione, in particolare a 14 anni, davanti a un frappé alla fragola.