Un laboratorio del centro di produzione del vaccino BioNTech-Pfizer a Reinbek, in Germania (foto LaPresse) 

L'Europa che salverà il mondo

Paola Peduzzi, David Carretta, Micol Flammini

Abbiamo fatto un debunking appassionato di come è stata raccontata la strategia dell’Ue sui vaccini, dai furgoncini con le prime dosi fino a domani, quando tutti celebreremo la forza della più grande farmacia del mondo che investe nella tecnologia più innovativa che c’è

Li vediamo, i vostri occhi rovesciati indietro, al pensiero di ritrovarvi di fronte all’ennesimo nostro tentativo di restaurare l’immagine dell’Unione europea, voi che siete convinti che la gestione della campagna di vaccinazione del nostro continente sia stata fallimentare, anzi no: disastrosa. Ma sospendete per un attimo i pregiudizi e venite con noi: la storia che vi racconteremo non è propaganda, in questo noi europei non siamo bravi, non siamo russi, non siamo cinesi. Abbiamo imparato in molti anni di racconti e resoconti europei a riconoscere i difetti, gli errori, le incongruenze e le debolezze del progetto europeo, ma sappiamo anche che se c’è una forza sottostimata al mondo anche a causa dei suoi stessi protagonisti, cioè noi, questa è la forza dell’Europa. Per questo ci siamo armati di tutta la lucidità di cui siamo capaci e siamo tornati all’inizio, quando la più grande campagna di vaccinazione di questo secolo è iniziata, con l’occhio di ora, inevitabilmente più consapevole e informato (quante cose, in un giorno, vi capita di capirle dopo?), e abbiamo compreso, non senza stupore, che la fortuna oggi è essere europei.

 

Direte: siete matti? Li vedete gli israeliani che ballano sui tavoli senza mascherina e mezzi nudi perché sono tutti vaccinati? Li vedete gli americani che prenotano voli e vacanze in ogni parte del globo sventolandoci in faccia i loro certificati di vaccinazione? Li vedete gli inglesi, sì quelli che hanno divorziato dall’Unione europea, quelli che un anno fa non sapevano da che parte prenderla, la pandemia, e hanno persino accarezzato l’idea di non prenderla proprio, di accettare il fatto che sarebbero morti a migliaia e pazienza, poi il gregge (decimato) svilupperà la sua immunità – li vedete gli inglesi che efficienza di vaccinazione, che prospettiva per il futuro, che road map per la libertà? E gli europei, noi europei? Vediamo tutto, invidiamo tutto, ci deprimiamo e ci arrabbiamo pure noi, ma solo quando è il caso. Ecco, questa è la storia di noi europei che abbiamo imparato a indignarci soltanto quando è il caso, o meglio: per le ragioni giuste. Se volete fare un viaggio oltre i vostri pregiudizi, si parte da qui.


Il 24 dicembre dell’anno scorso, un funzionario della Commissione europea postò una foto su Twitter di un montacarichi che trasportava le  prime scatole di fiale del vaccino anti Covid da distribuire negli stati membri. Diceva, sicuro e sorpreso insieme: “Sta accadendo davvero”, il 26 dicembre sarebbe iniziata la campagna di vaccinazione europea. Qualche giorno prima, l’Agenzia europea per i medicinali, l’Ema, aveva approvato il vaccino prodotto e distribuito da BioNTech e Pfizer, il cosiddetto “vaccino europeo”, frutto della convergenza culturale, scientifica e manageriale del sud e del nord dell’Europa (per capire quanto sia prodigiosa questa convergenza, ascoltate il professor Alessandro Barbero che racconta l’incoronazione di Carlo Magno a Roma e spiega che allora, nell’anno mille, Roma era tutto tranne che europea).

 


Il 26 dicembre i furgoncini carichi di fiale partirono scortati dalla polizia in direzione dei paesi membri, con il loro carico simbolico – 9.750 dosi per ciascuna nazione europea. Erano stati riempiti a Puurs, nelle Fiandre, nello stabilimento di Pfizer-BioNTech: i cittadini fin lì conosciuti, ma poco, per la produzione della birra Duvel erano piuttosto orgogliosi di essere diventati, nel giro di qualche settimana, gli abitanti della “capitale della lotta al coronavirus”.


Trascorse giusto qualche giorno, e iniziarono le polemiche. La prima, che a guardarla adesso sembra quasi comica, riguardò la Germania, che allora era modello in Europa di efficienza e precisione, con Angela Merkel a livelli di popolarità altissimi grazie al suo miscuglio ineguagliabile di spiegazioni scientifiche, chiarezza e rassicurazione. Ma la Germania, per buona parte degli europei, è egoista e prepotente, pronta a fregarci tutti alla prima occasione: così si disse che Berlino aveva ricevuto più dosi di altri paesi per via del suo sistema federale e che anzi stava negoziando un contratto parallelo con Pfizer-BioNTech (BioNTech è tedesca) violando le regole europee. Per giorni accusammo la Germania, l’allora premier italiano Giuseppe Conte disse che l’Italia non avrebbe mai fatto trucchi per avere dosi extra e così ci infilammo senza accorgerci nel primo grande errore di percezione della campagna vaccinale dell’Ue: la scarsità di dosi, all’inizio della campagna di vaccinazione, non è stato un problema. Il problema è stato l’incapacità di molti paesi di somministrarle, le dosi: guai nazionali presi per inefficienza europea.  

 

Compensare il guaio AstraZeneca. Per un po’ di tempo l’Ue ha sperato che “l’intoppo” delle consegne di vaccini fosse risolto dall’azienda anglo-svedese. Quando ha capito che non sarebbe accaduto, ha cambiato tutto

 

Mentre la polemica sulla Germania continuava, anche perché le dichiarazioni di Bruxelles non suonavano del tutto come smentite, ci fu un problema proprio nello stabilimento di Puurs. Era metà gennaio e Pfizer-BioNtech disse che avrebbe accumulato dei ritardi di qualche settimana nelle consegne del vaccino. Avremmo scoperto poco dopo che la produzione era stata rallentata per consentire dei lavori nello stabilimento volti ad aumentare, e di moltissimo, la sua capacità produttiva, ma quell’annuncio suonò come una campana a morto della campagna vaccinale europea. Non ci sono dosi, non ce le consegnano, Big Pharma come al solito scarica i suoi problemi sui consumatori (questa accusa ha un grande significato morale: i consumatori delle case farmaceutiche sono persone malate che hanno paura di morire, sono fragili, approfittarsene è da mostri), l’Europa ha firmato contratti senza meccanismi di controllo e via dicendo. Pfizer-BioNtech si rimise a produrre nel giro di cinque giorni a un ritmo molto più sostenuto rispetto al passato, tanto da poter poi garantire non soltanto le consegne previste ma anche quelle extra che l’Ue si sarebbe messa di lì a poco a contrattare. Perché nel frattempo è scoppiato il caso AstraZeneca, a lungo venduto come la dimostrazione del fatto che non ci fossero dosi da somministrare e soprattutto del “disastro clamoroso” dell’Ue. 


Su AstraZeneca ci sarebbe da scrivere e raccontare per giorni, ma infierire non è il nostro sport. Sapete come è andata a finire: l’Ue ha appena fatto causa ad AstraZeneca perché non ha rispettato gli accordi previsti dal contratto. Lo ha fatto soltanto ora perché da gennaio a oggi l’Ue ha prima cercato, anzi sperato, di superare il rallentamento iniziale proprio come era accaduto con Pfizer-BioNtech; poi, quando ha capito che la lentezza non era temporanea bensì strutturale, ha passato i mesi successivi a fare accordi per compensare le promesse non mantenute da AstraZeneca. Se oggi l’Ue porta l’azienda anglo-svedese in tribunale è perché la compensazione è andata a buon fine, cioè detto in altri termini: non abbiamo più bisogno di AstraZeneca. 

 


Ma questo lo sappiamo oggi. Da quando AstraZeneca ha annunciato che avrebbe ridotto le consegne del primo trimestre mettendo in difficoltà la campagna vaccinale europea che aveva scommesso su questo vaccino, che era anche il più economico, il “disastro europeo” è diventato un luogo comune dell’opinione pubblica dell’intero continente. Ancor più perché nel frattempo i non europei, gli inglesi, gli israeliani e gli americani, vaccinavano a velocità sorprendenti e non registravano alcuna scarsità di dosi: il confronto era impietoso. Un breve elenco, non esaustivo, delle fasi del cosiddetto “disastro”, mentre l’Ue lavorava a quella compensazione che oggi permette ai vari paesi di raggiungere i proprio obiettivi di vaccinazione. A febbraio, Bruxelles ha aperto un conflitto con Londra a causa di AstraZeneca, accusandola di aver preso dosi che erano destinate all’Europa e venendo accusata di aver firmato un contratto molto più debole e molto più in ritardo con AstraZeneca rispetto a quello del Regno Unito (entrambe le cose sono state smentite e si è scoperto che, poiché AstraZeneca distribuisce il vaccino scoperto a Oxford, il cosiddetto “vaccino inglese”, il governo di Boris Johnson, in perfetta coerenza con la sua ideologia, ha infilato un “UK first” nel contratto, iniziando di fatto quel protezionismo nazionalista sui vaccini che ha più volte rinfacciato all’Ue). In quel conflitto Bruxelles fece un errore piuttosto corposo: nella foga contro Johnson, il team di Ursula von der Leyen, ha quasi messo a repentaglio l’accordo Brexit nella parte che riguarda l’Irlanda del nord, guadagnandosi il disprezzo ulteriore di Londra e molte critiche sulla sua superficialità. A marzo, quando l’Italia decise di bloccare l’esportazione di 250 mila dosi AstraZeneca dirette in Australia a causa del mancato rispetto da parte dell’azienda degli impegni contrattuali, è sembrato il primo segnale dell’imminente guerra nazionalista sui vaccini che tutti (anche quelli che l’avevano già fatta senza dirlo) temevano e criticavano. La Commissione introdusse poi un regime più duro di controllo dell’export, che spinse i partner e i media internazionali a denunciare pubblicamente l’Ue per “protezionismo sui vaccini”.

 

Nel frattempo il fronte europeo si è spezzato in altri tronconi: il premier ungherese Viktor Orbán  ha comprato Sputnik V, il vaccino russo, e Sinopharm, il vaccino cinese (con cui si è anche vaccinato) introducendo così nel dibattito la possibilità di smarcarsi dalle direttive europee e dell’Ema e di approvvigionarsi autonomamente da chi sapeva fare il suo mestiere, cioè la Russia e la Cina. Quella scelta ha ancora delle conseguenze enormi per tutti i paesi membri, come dimostra la discussione sul passaporto vaccinale: lo si dà anche a chi ha adottato vaccini non approvati dall’Ema? E se sono meno efficaci di quelli approvati, che ne è dell’immunità di gregge? Ma allora, complici una macchina di propaganda ben oliata e l’idea che la Russia abbia più a cuore gli interessi europei della stessa Unione europea, l’alternativa a  Orbán apparve imperdibile. Così come quella offerta dal cancelliere austriaco, Sebastian Kurz, che in visita in Israele, annunciò l’uscita dalla strategia vaccinale dell’Ue (poiché infierire non è il nostro sport, non staremo a spiegarvi da capo il fatto che l’errore di Kurz non è stato solo quello di annunciare un’uscita che non avrebbe mai potuto permettersi, ma anche uno più grave a monte: ha sbagliato a fare gli ordini di vaccini, fin dall’inizio).


 La controstoria europea, per quanto comprovata dai fatti, non attecchì. E qui ci sarebbe da dilungarsi sul fatto che non soltanto gli odiatori dell’Ue avevano trovato molti appigli per esasperare il cliché del “disastro europeo”: la lamentela c’è stata anche tra gli amanti dell’Ue. Quante volte avete sentito: io sono europeista ma sulle vaccinazioni l’Ue ha sbagliato tutto? S’è perso il conto. Così, anche Kurz, come gli odiatori,  si è  lasciato affascinare dal potere persuasivo di Sputnik V, o meglio, è stato attratto dalla possibilità di colpire l’Ue annunciando un massiccio ordine del vaccino russo. Un milione di dosi, salvo poi sottolineare che sarebbero state importate soltanto dopo l’approvazione dell’Ema. I capricci di Kurz sono rientrati nei ranghi, il wunderkinder sta affrontando alcuni problemi in Austria a causa di scandali che hanno colpito i suoi  ministri e per un po’ ha pensato che l’attacco all’Ue, l’ostruzionismo,  e l’annuncio dell’acquisto del vaccino russo sarebbero serviti a risolvere la situazione politica. Finora però Sputnik V, più che risolvere problemi dentro ai governi, li ha creati. 

 


Il primo sconquasso politico è stato in Slovacchia, dove il premier Igor Matovic aveva concluso un accordo con il Fondo russo per gli investimenti diretti. Le prime duecentomila dosi di Sputnik V erano state già importate, ma dentro alla coalizione di governo non tutti i partiti erano d’accordo con questo colpo di mano da parte del premier, che aveva deciso, senza consultare gli altri, di discostarsi dalla strategia vaccinale europea. Matovic è stato costretto a dimettersi, ora è ministro della Finanze, e la Slovacchia ha accusato Mosca di aver mandato delle dosi con caratteristiche diverse rispetto a quelle pubblicate sulla rivista Lancet. La Russia, offesa, aveva richiesto le dosi indietro e Matovic, paladino della causa Sputnik V a Bratislava, era volato a Mosca per rimettere le cose a posto. Il nuovo premier, Eduard Heger, ha detto che in Slovacchia ci sono persone che si farebbero vaccinare soltanto con lo Sputnik V e che sono attese le analisi sulle dosi in dubbio presso un laboratorio certificato dell’Ema in Ungheria. Se il laboratorio darà il via libera, allora Bratislava le userà. 


Anche la Repubblica ceca ha avuto i suoi problemi con Sputnik V, un vaccino che piace molto al presidente russofilo Milos Zeman, piace meno al premier Andrej Babis, ma ha causato due dimissioni e qualche protesta. Zeman ha preteso le dimissioni dei ministri degli Esteri e della Salute perché contrari a concludere un accordo con Mosca, ma non è bastato ad aprire la strada al vaccino russo.

 

Nel periodo 31 gennaio-27 aprile, dall’Ue sono stati esportati 148 milioni di dosi. In cima alla classifica ci sono i partner del G7: 52,3 milioni al Giappone, 17,3 milioni al Regno Unito, 14,2 milioni al Canada.  Ogni settimana escono più di 10 milioni di dosi, in gran parte prodotte da Pfizer-BioNTech in Europa. La più grande campagna di vaccinazione del mondo dipende dall’Ue

 

Da quando tra Praga e Mosca è scoppiata una guerra diplomatica, per le strade delle città ceche ci sono  manifestazioni contro Zeman – oltre a essere stata piazzata davanti all’ambasciata russa nella capitale una statua caricaturale di Putin con in mano il Novichok, l’agente nervino con cui è stato avvelenato Alexei Navalny, e seduto su un water d’oro – i cechi sono stanchi di questo atteggiamento favorevole nei confronti della Russia, e anche del suo vaccino. In Germania, dove è stato  toccato il record del milione di somministrazioni al giorno, quando ci sono state alcune difficoltà legate alla strategia di vaccinazione, c’è chi ha avuto la tentazione di sventolare lo Sputnik V come alternativa ai farmaci dell’Ue. Markus Söder, governatore della Baviera, e il ministro della Salute Jens Spahn, hanno annunciato l’avvio di negoziati. Söder ha detto che circa 2,5 milioni di dosi saranno disponibili nel Land e saranno prodotte nella città di Illertissen. Ma la Germania ha sottolineato che attenderà l’approvazione dell’Ema. 


Nonostante all’Ue venga spesso rimproverato di essere contraria allo Sputnik V per russofobia, il sentimento di sfiducia nei confronti di Mosca poco c’entra con la ritrosia a usare le dosi russe. Un accordo con la Russia non sarebbe conveniente in questo momento, perché non ha capacità produttiva sufficiente, vorrebbe che fossero gli europei a occuparsi della produzione, ma è un’operazione che richiede tempo e non accelererebbe la strategia vaccinale dell’Ue. Non è una priorità, ma  i paladini dello Sputnik in giro per l’Europa non accettano questo paradigma, e quindi insistono. Dietro a tanta insistenza c’è sicuramente l’ottima macchina della propaganda che la Russia è stata in grado di azionare attorno al suo vaccino: funziona ovunque ma non con i russi,  che non si vogliono vaccinare (nemmeno Putin voleva). Soprattutto funziona se comparata agli acciacchi d’immagine dell’Ue. Lo Sputnik V ha un account Twitter che si comporta come un troll, attacca gli altri vaccini, fa pubblicità a se stesso. Viktor Orbán è stato il primo a farsi affascinare, ma lui ha un interesse più degli altri a sbandierare i successi (inventati) di russi e cinesi in faccia alla fiacca comunicativa dell’Ue. 

 


La scorsa settimana è stato pubblicato un nuovo rapporto del Servizio europeo di azione esterna sulla disinformazione durante la pandemia. Secondo le conclusioni la “vaccine diplomacy” ha sostituito la “mask diplomacy” (ricordate la cavalcata dei blindati russi un anno fa da Pratica di Mare a Bergamo e i carichi di mascherine cinesi non in regola? All’epoca tutti rimproveravano all’Ue la mancanza di solidarietà e questi show brillavano davanti alla compostezza, e anche allo smarrimento, di Bruxelles). Russia e Cina conducono una campagna di disinformazione e manipolazione per minare la fiducia nei confronti dei vaccini prodotti in occidente, nelle istituzioni europee e nelle campagna di vaccinazione. Per farlo usano i social e i media controllati dallo stato e sponsorizzano i loro prodotti così come i movimenti No-vax. L’obiettivo è creare disordine sempre e ovunque, offrire un’alternativa fasulla ma che risuoni plausibile agli europei che tendono a pensare che là fuori le cose funzionino meglio. Sputnik V in Europa ha fatto due vittime tra i governi ed è riuscito anche a mettere in discussione, ancora una volta, la democrazia. In questi mesi la leadership europea non ha rivendicato il suo lavoro con le aziende e gli stati per la distribuzione delle dosi, a sua volta intimorita dalla propaganda altrui, abdicando così di fatto alla creazione di una diplomazia sui vaccini che sarebbe stata non soltanto utile ma, a differenza di Russia e Cina, vera ed effettiva.

 


Questa consapevolezza è apparsa chiara in un momento preciso e con una formula precisa, questa: l’Europa è la farmacia del mondo. Venerdì 23 aprile, quattro mesi dopo l’inizio della campagna di vaccinazione nell’Unione europea, la von der Leyen è andata in visita allo stabilimento di Pfizer-BioNtech a Puurs, che ha prodotto, mentre   litigavamo tra di noi e con AstraZeneca, centinaia di milioni di dosi con cui è stato vaccinato il 25 per cento della popolazione adulta dell’Ue. Di fianco alla presidente della Commissione c’erano Albert Bourla, amministratore delegato di Pfizer, Özlem Türeci, la fondatrice di BioNTech, e il primo ministro belga, Alexander De Croo. Dietro alla von der Leyen, sullo sfondo c’era una grande scritta: “Science will win”, la scienza vincerà. “Ci incontriamo qui oggi in un luogo che è il simbolo di tre storie davvero europee”, ha detto la von der Leyen, annunciando: il 70 per cento della popolazione adulta europea potrà essere vaccinato non più entro la fine dell’estate, ma “già nel mese di luglio”. In quel momento la presidente della Commissione ha fatto sapere che la sua politica di compensazione dei ritardi e delle inefficienze di AstraZeneca, aveva avuto successo. Ma in quel discorso, la von der Leyen ha detto altre due cose rilevanti, che hanno molto a che fare con la “special relationship” che si è creata tra l’Ue e Pfizer-BioNTech.

 


“L’Europa è leader a livello mondiale per quanto riguarda la tecnologia rivoluzionaria e salvavita mRna”, ha detto la von der Leyen: “Nel mezzo di una crisi sanitaria senza precedenti, l’Europa è il campione mondiale dei vaccini, perché rende i vaccini disponibili al resto del mondo”. La strategia sui vaccini dell’Unione europea ha reso più sicuro – dal punto di vista sanitario ma abbiamo imparato che questa sicurezza è molto ampia, non riguarda soltanto la salute fisica di ogni singolo individuo – buona parte del mondo. E lo ha fatto non millantando come Vladimir Putin, che propone di rifornire l’Europa di Sputnik V ma di fatto sta chiedendo agli europei di produrre noi il suo vaccino, perché la Russia da sola non ha niente da vendere a nessuno; non millantando una superiorità scientifica segretissima come la Cina, che di recente ha dovuto ammettere che i vaccini europei sono molto efficaci e che l’mRna, contro cui si è scatenata la propaganda cinese, è in effetti una formula vincente da adottare; e nemmeno screditando i grandi assenti dell’internazionalismo vaccinale, loro sì, cioè gli Stati Uniti di Joe Biden, che in sostanziale continuità con l’Amministrazione precedente di Donald Trump ha  applicato un indefesso e inscalfibile “America first sui vaccini”. 
“Siamo la farmacia del mondo”, ha detto la von der Leyen: è vero. 


“Da dicembre abbiamo esportato 155 milioni di vaccini in oltre 87 paesi”, ha spiegato la presidente della Commissione a Puurs: “Abbiamo esportato tante dosi quante ne abbiamo consegnate ai cittadini europei”. In realtà quelle cifre sono ancora più importanti. Dal primo dicembre al 30 gennaio sono stati esportati 34 milioni di dosi (di cui dieci milioni soltanto verso il Regno Unito). Nel periodo 31 gennaio-27 aprile (dopo l’entrata in vigore del meccanismo di controllo delle esportazioni), dall’Ue sono stati esportati 148 milioni di dosi, senza conteggiare quelle destinate a Covax, il programma globale per la condivisione dei vaccini. In cima alla classifica ci sono i partner del G7: 52,3 milioni al Giappone, 17,3 milioni al Regno Unito, 14,2 milioni al Canada. Poi 9,7 milioni al Messico, 6,2 milioni all’Arabia Saudita, 5,4 milioni alla Turchia, 5,1 milioni alla Svizzera, 3,5 milioni alla Colombia, 3,4 milioni a Singapore e 2,9 milioni alla Corea del sud. Appena sotto la “top ten”, con 2,6 milioni di dosi importante dall’Ue, c’è anche Hong Kong, dove il vaccino Pfizer-BioNTech ha più successo di quelli cinesi. Ogni settimana escono dall’Ue più di 10 milioni di dosi, in gran parte prodotte da Pfizer-BioNTech a Puurs o a Marburgo, nello stabilimento acquistato lo scorso anno da Novartis.
Nei dati settimanali diffusi dalla Commissione non compare il campione del mondo nella vaccinazione, Israele, perché ha ricevuto le dosi prima di tutti gli altri a dicembre, quando il meccanismo sul controllo delle esportazioni non era ancora in vigore. “Dobbiamo dire che Israele non sarebbe stato vaccinato se l’Europa non avesse esportato”, ha ricordato il 21 aprile la cancelliera tedesca, Angela Merkel. Le dosi di Pfizer atterrate a Tel Aviv erano state prodotte a Puurs. Israele ha poi contribuito molto alla verifica e ai controlli dell’efficacia di questo vaccino: ricorderete le polemiche sul fatto che Israele avesse ottenuto una corsia preferenziale presso Pfizer grazie all’amicizia personale tra il premier Benjamin Netanyahu e Bourla (ebreo di Salonicco), grazie alla volontà di pagare di più le dosi rispetto al prezzo concordato in Europa (Big Pharma è immorale) e grazie alla disponibilità di Netanyahu a fornire i dati sull’andamento della vaccinazione dal punto di vista sanitario, cioè degli effetti collaterali; strutturale, cioè ricoveri in ospedale; e di andamento del contagio (Israele baratta i dati dei suoi cittadini). Ancora qualche giorno fa, l’inventore del vaccino di BioNTech e fondatore dell’azienda, il turco Ugur Sahin, ha detto a un gruppo di giornalisti internazionali che le informazioni ottenute da Israele sono state decisive per lavorare sul fattore più importante e spaventoso di oggi: le varianti e l’efficacia dei vaccini attuali sulle varianti (ha detto che il suo vaccino per ora funziona contro le varianti rilevate).


Senza le esportazioni di Pfizer-BioNTech dall’Unione europea, nemmeno Boris Johnson potrebbe vantarsi di aver vaccinato il 50 per cento della popolazione adulta, dato che AstraZeneca non è riuscita a mantenere le promesse di produzione neanche con i britannici. E’ una delle ragioni per cui nessuna dose è uscita dal Regno Unito, ma soltanto componenti per la fabbricazione dei vaccini. Eppure questa solidarietà senza frontiere dell’Ue non fa notizia, mentre poche dosi finalmente esportate dagli Stati Uniti diventano subito motivo di festa e celebrazione: prima quattro milioni di vaccini concessi a Canada e Messico, poi l’annuncio della possibilità di sbloccare nei prossimi mesi 60 milioni di dosi di AstraZeneca, che comunque gli americani non usano perché la Food and drug administration non lo ha approvato. In sostanza Biden darà al resto del mondo, dopo aver già dato almeno una prima dose a 200 milioni di americani, dei vaccini che non usa e che altrimenti finirebbero per scadere inutilizzati negli stabilimenti americani. Eppure questa piccola e ritardataria generosità americana si è notata molto di più rispetto a quella grande e continua dell’Unione europea.

 


L’Ue dà per scontato il rispetto delle regole del gioco: non dare priorità a se stessa, cooperare durante una pandemia mondiale, mantenere aperte le catene di approvvigionamento della globalizzazione. Anche perché questo è il punto di partenza del suo successo, per quanto non lo sappia rivendicare. Il Belgio è un piccolo paese, ma è “una potenza farmaceutica”, ha detto il premier De Croo nello stabilimento di Pfizer a Puurs. A Seneffe c’è l’unico impianto di AstraZeneca che produce quantità significative di dosi per l’Ue. A Wavre produce GSK per CureVac, l’azienda tedesca che Trump voleva comprarsi, e Sanofi fa l’infialatura. A Drogenbos c’è il “fill and finish” di Pfizer-BioNTech. “L’industria farmaceutica in Belgio vale 40 mila posti di lavoro, 3,5 miliardi di investimenti e 40 miliardi di esportazioni l’anno”, ha spiegato De Croo: “Questo è il risultato di scelte che sono state fatte nel corso degli anni”, ma anche “della fiducia nella cooperazione globale. Se si guarda quel che si produce qui (a Puurs), gli ingredienti di questo vaccino arrivano da più di ottanta paesi. Può funzionare solo se rispettiamo il commercio globale e se capiamo che dobbiamo lavorare insieme. Questa è sempre stata la nostra filosofia. Vogliamo giocare questo ruolo in un mercato aperto e in un mercato in cui tutti rispettano le regole”. L’Ue con il suo mercato unico di 450 milioni di persone e senza barriere commerciali significative con il resto del mondo ha spinto le società farmaceutiche a investire in Europa. 


Non c’è solo il Belgio. La catena di produzione dei vaccini contro il Covid-19 nell’Ue si concentra soprattutto in Olanda e Germania, ma si estende a Francia e Spagna (in Italia l’unico attore importante per ora è Catalent per il “fill and finish” ad Anagni). Il gioco di squadra sta consentendo all’Ue di diventare la potenza globale della produzione di vaccini contro il Covid-19. Thierry Breton, il commissario francese che è stato messo a dirigere la Task Force della Commissione in questo settore, ha indicato che alla fine del 2021 nell’Ue ci sarà la capacità necessaria a produrre 2,5-3 miliardi di dosi l’anno. Più o meno quante gli Stati Uniti. Ma non vaccini qualsiasi. L’Ue ha deciso di puntare molto su Pfizer-BioNTech e tutto sulla tecnologia mRna.


Matina Stevis-Gridneff, che racconta l’Europa sul New York Times, ha pubblicato il resoconto più esaustivo della “special relationship” tra la Commissione europea e Pfizer-BioNtech dopo aver parlato a lungo con la von der Leyen, con Bourla e con Sean Marett, il capo dell’ufficio commerciale di BioNTech (è arrivato nella società tedesca nel 2012, dopo una carriera in altre aziende farmaceutiche, compresa Pfizer: dice che un “visionario” come Ugur Sahin non l’aveva mai incontrato prima). Von der Leyen ridimensiona “le pressioni politiche che ha subìto”: “Sapevo che la produzione e le consegne del vaccino sarebbero state per loro natura all’inizio lente e che il primo trimestre sarebbe stato duro. Certo, non così duro: non avevamo contemplato la possibilità che AstraZeneca avrebbe ridotto le proprie consegne del 75 per cento: questo è stato un intoppo pesante”. Albert Bourla dice che il suo rapporto molto stretto con la presidente della Commissione si è creato grazie alla competenza di lei: “Conosceva i dettagli delle varianti, conosceva i dettagli di praticamente tutto, e questo rendeva le nostre discussioni molto più coinvolgenti”. Il resto lo ha fatto la tecnologia alla base del vaccino scoperto da  BioNTech: l’Rna messaggero. 


Sono passati quasi quarant’anni da quando una scienziata ungherese, Katalin Karikó, fece i primi studi pionieristici sull’mRna, l’acido ribonucleico messaggero che, per dirlo in parole semplici, dice alle nostre cellule quale proteina creare. La Karikó fece quei primi studi in Ungheria prima di trasferirsi negli Stati Uniti: oggi la potete seguire su Twitter mentre segnala gli errori scientifici ma con un’impronta politica del governo Orbán, che tende sempre a sovrastimare gli effetti del vaccino russo. Il “sogno” dell’mRna è resistito a tutto, “alle carriere distrutte, alle aziende finite in bancarotta”, come ha scritto Derek Thompson sull’Atlantic in uno splendido articolo, perché il suo principio è il più semplice e il più elettrizzante di tutti: il farmaco più potente del mondo potrebbe essere dentro al corpo di tutti noi. Per questo, nonostante i tanti guai che hanno attraversato la storia scientifica legata all’mRna negli ultimi decenni, il sogno è rimasto intatto. E ora che BioNTech e Moderna hanno dato uno scopo ben preciso all’mRna, si moltiplicano gli studi in cui si ipotizza che l’mRna possa rivoluzionare il mondo per sempre: potrebbe curare la malaria, potrebbe essere usato per i vaccini anti influenzali stagionali (avrete sentito spesso che l’influenza uccide più del Covid: è un mantra negazionista, ma comunque sì, l’influenza uccide), per la cura del cancro, dell’Aids, e anche per rallentare la sclerosi multipla. Per questo investire su questa tecnologia è un esempio perfetto e concreto di quel che vuol dire: riprenderci il gusto per il futuro (copyright Mario Draghi).       
La Commissione europea sta negoziando un contratto per l’acquisto di 1,8 miliardi di dosi per il 2022 e il 2023, sufficienti a rivaccinare due volte tutta la popolazione europea contro le varianti o in caso di richiamo per rafforzare l’immunità. Tra fine maggio e inizio giugno dovrebbe arrivare anche il vaccino CureVac. Con Moderna è già stato firmato un secondo contratto per rafforzare le forniture di quest’anno. “Questa tecnologia pionieristica potrebbe essere la spina dorsale del nostro futuro portafoglio di vaccini”, ha detto von der Leyen. “I vaccini a mRna saranno fondamentali per il piano di preparazione dell’Ue per combattere il Covid-19 e altri virus”. Il nuovo contratto con Pfizer-BioNTech “consoliderà la leadership dell’Europa nelle tecnologie di mRna. La storia dei vaccini contro il Covid-19 è quella della scienza rivoluzionaria, dello spirito pionieristico”, ha ricordato la presidente della Commissione. E, malgrado tutti i suoi difetti, le critiche, i pregiudizi, la tendenza a lamentarsi persino dei propri vantaggi competitivi, l’Ue ci ha messo del suo. Non solo perché la Banca europea degli investimenti un anno fa ha prestato i soldi a BioNTech e CureVac per lo sviluppo del vaccino contro il Covid-19. Negli scorsi anni la società aveva ricevuto diversi milioni di euro dai programmi di ricerca dell’Ue per sviluppare la tecnologia mRna. 

 


Così l’Europa è riuscita a dare solidarietà ai paesi esterni inviando vaccini, ha compensato nel giro di pochi mesi “l’intoppo” AstraZeneca, ha investito su una tecnologia innovativa trasformandosi in un’utile, indispensabile farmacia del mondo. Se non fossimo atrofizzati nell’immagine dell’Ue immobile, burocratica, lenta e cauta, ci sarebbero tutte le condizioni per dire forte: eccola, una superpotenza.  
 

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