Sirene ed evacuazioni
Settanta razzi da Gaza contro Israele e 7 su Gerusalemme
Hamas e altri gruppi della Striscia sparano, centinaia di palestinesi feriti negli scontri con la polizia. Raid aerei di risposta
Alle sei del pomeriggio di lunedì in Israele scade l’ultimatum di Hamas, che aveva chiesto al governo israeliano di ritirare la polizia dalla spianata delle moschee e dal quartiere conteso di Sheikh Jarrah, a Gerusalemme est – era una richiesta per figura, senza possibilità che fosse accettata. Pochi minuti dopo il gruppo palestinese comincia a sparare razzi dalla Striscia di Gaza, i primi sette verso Gerusalemme, gli altri verso i centri abitati molto più vicini di Sderot e Ashkelon. Altri gruppi armati di Gaza come il Jaysh al Saraya e il Jihad islamico palestinese si uniscono, come era stato deciso a una riunione delle fazioni a mezzogiorno: sparano circa settanta razzi in tre ore (mentre questo giornale va in stampa), più un missile controcarro contro un’auto civile fuori dalla Striscia.
È un fuoco molto sostenuto se si considera che in tempo di guerra i gruppi di Gaza riescono a fare circa 130 lanci al giorno. I razzi sparati contro Gerusalemme non arrivano sul bersaglio, il sistema di difesa missilistico Iron Dome ne abbatte uno e gli altri finiscono in zone disabitate, ma in città le sirene che avvisano i civili di mettersi al riparo suonano e anche il Parlamento israeliano è costretto all’evacuazione.
A questo punto si può dire con sicurezza che Israele reagirà con un’operazione militare di lunghezza e intensità ancora incerte, il portavoce dell’esercito dice che durerà “giorni, non minuti”. Ci sono già stati i primi bombardamenti israeliani sulla Striscia, un drone ha eliminato un comandante di Hamas mentre si spostava su una moto.
Altri raid aerei hanno ucciso secondo il ministero della Sanità palestinese otto persone di cui tre bambini.
Gli israeliani che festeggiano la vittoria a Gerusalemme est nella guerra del 1967 come ogni anno si radunano lo stesso anche durante l’attacco con i razzi, ma considerato il livello di allerta la polizia modifica il tracciato della loro marcia dimostrativa e li tiene lontani dalla porta di Damasco, perché è troppo vicina a Sheikh Jarrah. È il quartiere dove trentotto famiglie palestinesi aspettano un ordine di sfratto a beneficio degli israeliani dopo una sentenza di tribunale – che però è stata impugnata e al momento è discussa davanti alla Corte Suprema. La decisione finale doveva arrivare lunedì, si è preferito farla scivolare di due settimane per aspettare un ritorno alla normalità che però in questi giorni è lontanissima — e non succedeva da anni.
È una tempesta perfetta, con molti fattori che s’incastrano fra loro: la protesta palestinese per Sheikh Jarrah è diventata una sequenza di scontri sulla spianata del Tempio, le elezioni palestinesi sono state rimandate e entrambi gli schieramenti più importanti – Fatah e Hamas – hanno interesse a fare dichiarazioni molto dure perché in questo momento la retorica ha un premio molto maggiore del pragmatismo, la fine prossima del mese sacro per i musulmani di Ramadan corrisponde come spesso succede con un picco della tensione, la coincidenza temporale con la giornata dell’indipendenza di Israele che per i palestinesi è il giorno della Nakba, la catastrofe. Eppure la somma di tutti questi fattori, pure se promette giornate orrende, alla fine non porta a un risultato diverso. Ogni fiammata di violenza poi rientra, con un numero variabile di perdite soprattutto da parte palestinese e ogni round di attacchi da Gaza e di contrattacchi israeliani non modifica la situazione. Lunedì un commentatore molto seguito degli Emirati twittava scandalizzato contro i razzi di Hamas sparati contro Gerusalemme, è una novità: questi sono i primi scontri dopo gli Accordi di Abramo dell’agosto scorso, che ha avvicinato molti governi arabi a Israele.