alla ricerca di un pompiere

La politica israeliana secondo Mansour Abbas

Molti arabi israeliani alle ultime elezioni non hanno votato per la Lista comune perché stanchi del fatto che facesse gli interessi di Hamas e dell'Autorità palestinese. Hanno dato fiducia al leader di Ra'am

Micol Flammini

Il leader del partito arabo Ra'am non guarda gli scontri nelle città, va oltre e fa i suoi calcoli politici. Vuole il suo posto nella Knesset e si tiene pronto per nuove trattative per formare il governo

Roma. Le violenze nelle città israeliane tra arabi ed ebrei vanno avanti e il conflitto di Gaza si è trasferito anche nelle vie di Lod, Acri, Haifa, Bat Yam e Tiberiade. Ci sono anche esempi contrari, comunità che da anni cercano di convivere e a forza di provarci ci sono anche riuscite, ma sono le meno raccontate in questi giorni di scontri, come nei giorni di tranquillità. Sono soprattutto i residenti arabi di queste comunità che nelle ultime elezioni avevano sperato di trovare finalmente qualcuno che potesse rappresentarli: Mansour Abbas, leader del partito islamista Ra’am, lo stesso che dopo il voto si è prima reso disponibile a un governo con Benjamin Netanyahu e poi a uno con Yair Lapid e Naftali Bennett

 

Queste comunità, che da anni lavorano per l’integrazione, in questi giorni speravano di sentire da parte di Abbas una condanna ferma e diretta nei confronti degli scontri, una presa di posizione contro Hamas, invece il leader di Ra’am si è limitato a condannare la violenza di tutte e due le parti. Ma questo non ha messo da parte il suo desiderio di trasformarsi nel deus ex machina della politica israeliana. Lunedì, dopo l’inizio degli scontri, aveva annullato una riunione con Yair Lapid e Naftali Bennett – che ieri ha escluso la possibilità di formare un governo con Ra'am e quindi è uscito dalla coalizione anti Netanyahu – e sospeso le trattative per la formazione di un nuovo governo. Ma mercoledì, in un’intervista alla radio Galatz, ha detto che  i negoziati andranno avanti non appena lo scontro finirà.  E se alcuni retroscena avevano raccontato che il tempo della chiusura del conflitto sarebbe stato determinante per le trattative, Abbas ha detto che non c’è nessuna questione di tempo, gli scontri potranno finire tra due giorni o due settimane, lui è comunque pronto a riprendere gli accordi. “Non mi arrendo, ha detto Abbas, forse questi scontri rendono più necessaria una cooperazione”. 

 

Il conflitto cresce ma la politica va per la sua strada, che è molto diversa da quella delle violenze. E’ molto diversa dalla retorica dei giovani arabi che combattono, che si ribellano a Israele. Nelle dinamiche politiche, i partiti che li rappresentano fanno i loro calcoli. Molti arabi israeliani alle ultime elezioni non hanno votato per la Lista comune, una coalizione di partiti arabi, perché stanchi del fatto che  la Lista più che rappresentare loro, facesse gli interessi di Hamas e dell’Autorità palestinese. Mansour Abbas, che ha fatto una campagna parlando di compromessi  nonostante il suo partito sia una costola dei Fratelli musulmani, ha sorpreso tutti entrando in Parlamento con quattro seggi. Gli è stata data fiducia per le sue promesse e perché ha parlato a  un elettorato che vuole sentirsi parte dello stato di Israele. Lui ha intercettato tutto questo, come anni fa aveva intercettato che avrebbe dovuto spostare il suo partito più su questioni economiche che su quelle religiose. Adesso Abbas  punta al suo obiettivo: far parte della politica, contare, essere l’ago della bilancia a cui i futuri governi dovranno essere legati. Gli arabi israeliani che speravano fosse un pompiere, la persona giusta per spegnere gli odi fomentati dal terrorismo, per ricostruire, per tagliare una volta per tutte i rapporti con Hamas, in questi giorni si sono accorti che potrebbe non esserlo. Anche se non sarà  il pompiere che tutti si aspettavano, è un politico determinato, anche spregiudicato, che vede i conflitti e anziché soffiarci sopra li ignora: guarda oltre, fa i suoi calcoli, e nonostante le critiche dentro al suo partito non manchino, pensa al momento in cui ricominceranno le trattative. 

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  • Micol Flammini
  • Micol Flammini è giornalista del Foglio. Scrive di Europa, soprattutto orientale, di Russia, di Israele, di storie, di personaggi, qualche volta di libri, calpestando volentieri il confine tra politica internazionale e letteratura. Ha studiato tra Udine e Cracovia, tra Mosca e Varsavia e si è ritrovata a Roma, un po’ per lavoro, tanto per amore. Nel Foglio cura la rubrica EuPorn, un romanzo a puntate sull'Unione europea, scritto su carta e "a voce". E' autrice del podcast "Diventare Zelensky". In libreria con "La cortina di vetro" (Mondadori)