I vicini di casa ignorati
In America latina non ci sono i fondi per la ripresa e non ci sono nemmeno i vaccini occidentali: l’Amministrazione Biden non li distribuisce. Ci hanno pensato Cina e Russia, ma la loro diplomazia è più efficace dei loro vaccini
L’8 novembre Washington DC festeggiava la vittoria di Joe Biden e i think tank della capitale pubblicavano previsioni sempre più dettagliate su quali sarebbero state le mosse dell’amministrazione che stava per insediarsi nei vari scenari di politica internazionale. Biden si era occupato per decenni di America latina e aveva coltivato nel tempo relazioni personali con buona parte dei leader (o con coloro che lo sono poi diventati) della regione, tanto che a pochi giorni dalle presidenziali sul sito della rivista Atlantic campeggiava il titolo “The Biden Doctrine Begins With Latin America”, la dottrina Biden comincia con l’America latina.
Eppure le analisi su quale sarebbe stata, dopo l’insediamento della nuova Amministrazione, la postura degli Stati Uniti nei confronti dei vicini di casa del sud sembravano le più incerte, disilluse e contraddittorie di tutte. “Nei rapporti con il subcontinente latinoamericano Biden non promette nulla di buono”, aveva scritto sul quotidiano uruguaiano La Diaria Alexander Main, il più pessimista, direttore del dipartimento di Politica internazionale al Center for Economic and Policy Research di Washington, esperto di politica latinoamericana e di relazioni tra gli Stati Uniti e la metà sud del continente.
Sono passati quasi quattro mesi da allora e – al di fuori di un dialogo embrionale con tre piccoli paesi dell’America centrale e con il Messico sull’emergenza migranti – non si è visto né capito nulla. Gli Stati Uniti e l’America latina sono sembrati più lontani che mai: non si telefonano, non si corteggiano, non si preoccupano gli uni degli altri. Il “vicino del sud” intanto implode e – in prospettiva – non senza conseguenze per gli Stati Uniti. In Colombia da poco più di una settimana non si fermano le proteste, i saccheggi, i blocchi stradali, la violenza della polizia che ha già causato decine di morti, cento desaparecidos e circa mille feriti.
Le manifestazioni sono iniziate per la riforma fiscale voluta dal presidente Iván Duque, ma nonostante quest’ultimo abbia ritirato il progetto di legge e ottenuto le dimissioni del suo ministro delle Finanze, da Bogotà a Cali a Medellín le manifestazioni si intensificano e le rivendicazioni della piazza aumentano e diventano più ambiziose di giorno in giorno. Per l’Economist, ciò che accade a quelle latitudini si inserisce perfettamente in un circolo vizioso che sta riguardando buona parte della regione: i governi latinoamericani non hanno idea di come pagare il costo della pandemia. I fondi sono pochi e far fronte al Covid, soprattutto acquistare i vaccini o produrli in collaborazione con cause farmaceutiche straniere, costa moltissimo.
In America latina non c’è niente di lontanamente paragonabile ai duemila miliardi di helicopter money di Biden o al Next Generation Eu. Per questo, il Brasile ha dovuto ammettere che i soldi per gli aiuti economici alle famiglie erano finiti, l’Ecuador ha varato misure di austerity, la Colombia – che ha sostenuto uno dei lockdown più lunghi del mondo durante il quale il deficit è triplicato – ha proposto di eliminare alcune esenzioni fiscali e di abbassare la soglia di reddito a partire dalla quale si pagano le tasse. In Ecuador il presidente ci ha rimesso, politicamente, l’osso del collo. In Colombia Duque ha maldestramente finto di non conoscere i dettagli della sua legge e, con malcelato imbarazzo, ha deciso di ritirarla.
Non è bastato per placare le piazze. I governanti latinoamericani si percepiscono (spesso non a torto) in un vicolo cieco, e sembrano andare nel panico. I cittadini sono esasperati, infrangono chiusure e coprifuoco, protestano e i contagi aumentano. Nel subcontinente vive l’8 per cento della popolazione globale, ma c’è quasi il 30 per cento dei contagi di tutto il mondo. L’America latina sembra essere l’unico pezzo di occidente “nelle mani di Dio”, senza un piano di ripartenza o almeno di sopravvivenza. L’Argentina in crisi è sempre più in crisi, il Venezuela non parliamone. Il populismo è in splendida forma, e da questo anno elettorale in tutta la regione uscirà rafforzato.
Gli outsider incalzano i governi, soprattutto quelli dei paesi che costituiscono i principali alleati degli Stati Uniti, come la Colombia e come il Cile. Dove la classe dirigente, con il fallimento del piano vaccinale, ha perso l’ultima occasione di sopravvivere all’ondata di proteste e all’abrogazione della Costituzione in vista delle presidenziali. Per capire cosa è successo lì, bisogna però fare un passo indietro.
L’horror vacui è un concetto applicabile anche alla diplomazia, soprattutto in tempi di pandemia, dove le nazioni sono più vulnerabili e le società più fragili. Il disimpegno americano ha liberato spazi che la Russia e la Cina hanno subito tentato di occupare, con l’idea di riportare il confronto proprio in quello che la Casa Bianca nel recente passato ha spesso considerato il proprio “cortile di casa”. Innanzitutto con le forniture dei vaccini Sputnik V, Sinopharm e Sinovac ad Argentina, Venezuela, Brasile, Messico e Cile. Oltre alla voglia di fare i dispetti agli Stati Uniti così vicino ai loro confini, c’è evidentemente quella di rinnovare la propria immagine. La narrativa secondo cui l’occidente pensa per sé mentre Russia e Cina sono le uniche a esportare i vaccini ha potuto attecchire con una certa facilità. Nel frattempo, procedono spedite anche le discussioni con la Repubblica popolare sulla tecnologia 5G, mentre i generici appelli di Biden a tenersi lontani da Huawei, nel contesto dell’incomunicabilità tra nord e sud, suonano lontanissimi e finiscono per cadere nel vuoto.
La diplomazia dei vaccini sembrava funzionare e non trovare resistenze sul proprio cammino almeno fino a quando il Cile, paese con un piano vaccinale modello molto più veloce e capillare di quello di qualsiasi paese dell’Unione europea, ha scoperto a caro prezzo e sulla propria pelle che i vaccini cinesi non funzionavano. Una scarsa efficacia poi ammessa anche dalla stessa Repubblica popolare.
La frustrazione è stata enorme, il paese sudamericano aveva già inoculato oltre dieci milioni di persone (su una popolazione di 19 milioni) con il vaccino di Sinovac e con quello di Sinopharm, si percepiva a un passo dall’uscita dalla crisi ma si è ritrovato all’improvviso a dover fronteggiare la saturazione delle terapie intensive e la chiusura dei confini, costretto a ripristinare l’isolamento dell’intera popolazione. Il governo, che nell’organizzazione di un piano vaccinale da manuale aveva riposto ogni aspettativa di riscatto, con il lockdown è ripiombato a un record negativo di consensi.
A dispetto di tutto ciò, di fronte all’assenza di un’alternativa, l’America latina continua ad affidarsi alle case farmaceutiche cinesi e russe, l’Argentina di recente ha firmato un accordo con Pechino proprio sulla produzione locale del vaccino Sinopharm, mentre anche Panama ha appena autorizzato lo Sputnik V. Poi c’è l’esempio del Paraguay che vorrebbe le fiale cinesi ma non riesce a procacciarsele per questioni diplomatiche, cioè perché il paese latinoamericano ha ottime relazioni con Taiwan. Il ministro degli Esteri paraguaiano ha implorato più volte gli Stati Uniti di vendere un po’ di vaccini che gli Stati Uniti non utilizzano (come quello di Astrazeneca), ma senza successo.
La proposta di sospensione dei brevetti formulata alla Wto dal presidente Biden è un tentativo di dare una risposta politica a questo problema, ma sembra un posizionamento cui non corrisponde un’utilità pratica. Non ci si improvvisa produttori di vaccini altamente sofisticati, non in paesi meno avanzati tecnologicamente, come quelli cui Biden dice di voler andare incontro con questa mossa. Sarebbe molto più utile che l’Amministrazione americana decidesse di abbandonare il Defense Production Act, con il quale impedisce alle proprie aziende l’esportazione delle fiale come dei materiali e delle singole componenti che servono a produrlo. Magari, almeno per la consapevolezza della sfida sanitaria e migratoria che può venire dal subcontinente latinoamericano, tra nord e sud qualcuno prima o poi alzerà il telefono.