Gli accordi di Abramo non funzionano
Cultura, economia, politica. La lotta tra israeliani e arabi non la si risolve con la geopolitica
Non c’è Abramo che tenga, la lotta tra israeliani e arabi non è una questione, o non solo, geopolitica. Il successore di Nasser, Sadat, tra il 1977 e l’anno successivo fece la pace con Israele con gli accordi di Camp David, lui e Begin ebbero perfino un premio Nobel. Tre anni dopo fu assassinato nel corso di una parata militare, e alla fine di un lungo ciclo militare presero addirittura il potere i Fratelli musulmani, i fondamentalisti che avevano compiuto l’attentato. Nell’ottobre del 1994 Hussein di Giordania e Rabin stipularono un accordo di pace e reciproco riconoscimento, sotto gli occhi di Clinton. Poi Rabin fu assassinato in una piazza democratica da un fanatico. Quelli erano gli accordi di Abramo. Ancora reggono, sempre vacillanti, ma non hanno risolto la questione di fondo, nemmeno con il ridisegno dello stesso mondo arabo. Se aggiungiamo gli accordi con gli Emirati e il Bahrein sotto Trump e Kushner, guardati con ambigua benevolenza tra politica e bisnizzara dai sauditi, nel frattempo alleati potenziali di Israele sulla faglia di ostilità tra sunniti e sciiti dell’Iran, possiamo pure ritirare fuori il padre di Isacco e Ismaele, ma il tutto resta una concatenazione di casi di geopolitica tribale e dinastica. E sullo sfondo del grande gioco negoziale si stagliano la rivoluzione islamista a Teheran, l’11 settembre, le guerre in Iraq e Afghanistan, l’epica di terrore siriana scatenatasi in seguito alla primavera araba, l’evacuazione della Striscia di Gaza dominata da Hamas da parte di Sharon, l’avventura dell’Isis, la destabilizzazione permanente del Libano al confine del nord, la penetrazione turca e russa, e molto altro che sta nei dossier di Mossad e altri servizi internazionali.
Per questa via diplomatica e interstatale, che si insinua tra guerre e colossali repressioni, si ottengono risultati, rinvii, tregue, e si ricalcolano i rapporti di forza in uno stato di allerta e di insicurezza strutturale, si garantisce la sicurezza armata relativa di Israele sotto minaccia, un bene che tutti i governi, dai buoni ai cattivi, nello schema fumettistico di certa sinistra pacifista, cercano di preservare. Ma la pace è decisamente un’altra cosa.
Tutte le cronache non complottistiche della crisi attuale concorrono nel determinarne le scaturigini in atti di prepotenza poliziesca presso la moschea di Al Aqsa nel primo giorno del Ramadan, e in un clima surriscaldato dalla battaglia a Gerusalemme est per il rimpossessamento di proprietà ebraiche il cui usufrutto era da sessant’anni in mani palestinesi, in fondo poca roba e risarcibile ma di enorme significato simbolico, visto che la capitale di Israele è anche la capitale religiosa o una delle capitali religiose del mondo islamico e dei popoli arabi. E’ nel fuoco del conflitto ravvicinato che partono i razzi su Tel Aviv e i bombardamenti a Gaza.
In questo aveva ragione Oz, lo scrittore fondatore di Peace now, e ha ragione sua figlia Fania quando distribuisce spighe per la strada ai palestinesi. Senza un accordo di territorio, un accordo di coscienza e di stanchezza storica tra loro, in vista di una pace vera e di un reciproco riconoscimento nel fazzoletto conteso, che poi può prendere strade di assetto istituzionale diverse, non se ne esce. Quello che gli Oz e altri non intendono appieno è che gli israeliani hanno molte responsabilità nell’incrudirsi della situazione, ma c’è una colpa storica decisiva in capo ai movimenti palestinesi e al loro retroterra immediato e lontano: Israele è una democrazia cingolata e tecnologica che tratta anche quando sembra aver rinunciato a ogni negoziato, i suoi nemici sono organizzazioni terroristiche dispiegate anche nel senso della protezione comunitaria, ma non sono e non sono mai stati, malgrado la recondita ipotesi che questo ruolo potesse essere quello di Arafat, partiti combattenti illuminati da un patriottismo popolare e nazionale che non agisca in una logica di annientamento dell’entità nemica. Lo sblocco ha implicazioni etniche, religiose, culturali, dogmatiche, economiche, di coscienza e classe dirigente oltre che politiche, e certo non si toglie lo stallo mortale a forza di grandi accordi abramitici.
Cosa c'è in gioco