L'Iron Dome in azione: la scia dei contromissili di Israele che intercettano i colpi di Hamas (LaPresse)

Mr. Iron Dome

Chi è Daniel Gold, l'inventore del sistema antimissile che difende Israele

Micol Flammini

Storia di un ingegnere visionario e del suo mantra: salvare vite. 

Gli ultimi undici giorni in Israele hanno avuto un suono e un colore. Il suono è il lamento della sirena che avverte che i missili sono in arrivo e che bisogna correre, più rapidamente possibile, negli shelter, nei rifugi. Dopo il lamento, uno scoppio, è l’Iron Dome che ha colpito i razzi lanciati da Hamas dalla Striscia di Gaza. Il suono dell’esplosione poi genera una fiammata di luce e un cielo di  un rosso sfrontato, chimico, innaturale, “è il colore della guerra”, dice una voce al telefono da Kfar Aza, kibbutz a sud di Israele. L’Iron Dome è il sistema antimissile israeliano che vede i razzi palestinesi partire, ne calcola la traiettoria e decide se sparare un controrazzo per annientarli o se lasciarli cadere. Tutto è rapidissimo e se non ci fosse stato questo sistema, le perdite per lo stato ebraico durante queste due settimane in cui Hamas ha lanciato più di quattromila missili sarebbero state molte di più, sono state dodici, non erano mai morti tanti civili israeliani.

 

“L’abitudine al senso del pericolo non si perde, la provi una volta e ti rimane addosso. Te la porti dietro sempre, è una compagnia costante. Un fluido più denso del sangue che ti senti scorrere nelle vene. Per cui, l’Iron Dome è stato importante, tutti qui a Kfar Aza lo sappiamo e proviamo a ripeterci che possiamo stare più tranquilli, ma di quel senso del pericolo già provato non c’è modo di liberarsi”. Sono le ferite che non si vedono di questa guerra, ma si spera che non rimarranno addosso alle generazioni più giovani e in questo l’Iron Dome gioca un ruolo importantissimo. 

 

Idearlo, promuoverlo e realizzarlo è stato una battaglia, che ha deciso di intestarsi un ingegnere con due dottorati di ricerca – uno in ingegneria elettronica, l’altro in Business management – che oggi è a capo della Defense Research and Development Directorate del ministero della Difesa. Si chiama Daniel Gold, di origini ungheresi, nato in Israele e cresciuto con un’idea: che lo stato ebraico fosse un posto meraviglioso in cui vivere, ma andava reso anche sicuro. Ha deciso di applicare i suoi studi a una missione: salvare il più alto numero di vite e “mantenere la continuità della vita in Israele”. Quando si presentò la prima volta davanti all’establishment della Difesa con la sua proposta di annientare i missili con altri missili ultra precisi, tutti pensavano che fosse un esaltato, un pazzo, “non siamo qui a giocare a guerre stellari”, gli hanno risposto. Ma Daniel Gold aveva tutta l’intenzione di rendere possibile una cosa impossibile. L’idea gli era venuta durante la Guerra del golfo, lui era a Tel Aviv, contro la quale Saddam Hussein scagliò i razzi Scud. Di quei giorni gli è rimasta in testa la sensazione di una città immobilizzata, vuota. All’epoca aveva da poco finito l’università e pensò che non si doveva permettere che gli israeliani vivessero nella paura.  

 

Dopo il primo fallimento davanti ai  capi della difesa, Gold non ha aspettato il via libera da parte dei vertici politici e militari e per evitare che il suo progetto, che ancora era soltanto un’idea, rimanesse impigliato nei vortici delle battaglie istituzionali, aveva già iniziato a muoversi per conto suo. Già nel 2004 aveva creato un comitato per studiare le varie opzioni per la tecnologia antimissile, continuò con le sue ricerche in palese violazione di una direttiva del ministero della Difesa, per il  quale il progetto non meritava di essere mandato avanti. Gold, che non aveva intenzione di rinunciare alla sua idea – oggi dice di non aver infranto regole, ma di aver semplicemente eluso la burocrazia – cercò un investitore privato. Era risultato un tipo eccentrico, troppo entusiasta,  e sapeva che, senza un risultato concreto da mostrare, i vertici della Difesa non avrebbe cambiato opinione sui suoi contromissili. Eppure, due anni dopo, anche i più scettici si erano convinti. Il maggior promotore del sistema era diventato il ministro Amir Peretz, l’allora tenutario della sicurezza che viene da Sderot e ben conosce la priorità di rispondere a una pioggia di razzi, era appena finita la guerra del Libano.

 

Nonostante Peretz avesse contro tutti, Gold ricevette i fondi per andare avanti, il progetto fu assegnato alla Rafael, con la quale l’ingegnere era già in contatto, e altre due società collaborarono per sviluppare il software e il radar.  Gold volle una squadra ampia, “il meglio del paese”, esperti di missili di settant'anni ormai in pensione e ingegneri venticinquenni, donne e uomini. In un’intervista a Yisrael Hayom ha raccontato: “È stato come gestire contemporaneamente quindici start-up diverse, che devono lavorare in armonia tra di loro e farlo in tempi da record. Nessuna gerarchia, un lavoro orizzontale”. Il progetto non era semplice, bisognava trovare il modo di scansionare costantemente tutta Gaza, di rilevare il missile lanciato e soprattutto di creare un centro di controllo in grado di calcolare la traiettoria in quindici secondi massimo. Ci sono voluti anni, c’era zero margine di errore, e il governo israeliano aveva bisogno di soldi. Peretz provò a rivolgersi al presidente americano Bush, la risposta fu negativa. Agli occhi degli americani il sistema pensato da Daniel Gold era “qualcosa che non si può fare”. Fu Barack Obama a credere nel progetto e a sostenerlo con 200 milioni di dollari. Le ricerche di Gold andavano sempre meglio, il sistema diventava sempre più rapido e preciso, per il design gli sviluppatori si ispirarono a un modello di macchinine per bambini. Era ormai arrivato il momento di dargli un nome. Al sistema e ai missili, anzi ai contromissili. 

 

Se Gold è il padre, l’ideatore, il promotore, il Don Chisciotte dell’Iron Dome, non è stato lui a scegliere il nome. I razzi si sarebbero dovuti chiamare anti Qassam, dal nome dei razzi di Hamas, ma alla fine decisero di chiamarli Tamir, acronimo di Til Meyaret, missile intercettore. Rimaneva da trovare un nome per il sistema, la prima proposta fu Golden Dome, cupola d’oro. Ma il nome venne bocciato, sembrava troppo pretenzioso, sfacciato. Il sistema doveva davvero rappresentare un’idea di sicurezza solida, non doveva risultare un vezzo, meglio Iron Dome, cupola di ferro, in ebraico: kipat barzel. Nel 2011, l’Idf dichiara il sistema operativo. 
È un sistema composto in tre parti: un radar, un centro di controllo e i missili intercettori. Il radar percepisce il razzo, il centro di controllo ne calcola la traiettoria, il Tamir lo disintegra, ma parte soltanto se c’è il pericolo che vengano colpiti centri abitanti. Oggi in Israele ci sono circa dieci batterie dispiegate in tutto il paese, ciascuna con tre o quattro lanciatori che sono in grado di sparare venti missili intercettori. E’ un’operazione costosa e queste furono le prime critiche che si trovò a dover affrontare Daniel Gold, una volta dimostrato che il sistema funzionava. Ogni batteria costa cento milioni di dollari, ogni razzo cinquantamila, mentre la produzione dei razzi utilizzati da Hamas a livello economico è molto meno onerosa. Per il momento non si è trovato il modo di abbattere i costi, ma i benefici risultano superiori e durante gli scontri di queste settimane Iron Dome ha intercettato oltre 1400 razzi lanciati dalla Striscia. Un numero altissimo che ha messo sotto pressione il sistema. 

 

Nel 2012 Gold riceve un importante premio da parte del ministero della Difesa, da pazzo era diventato un visionario. Lui sostiene sia un passo molto breve in realtà, che il suo più grande orgoglio sia stato quello di aver trasformato la fantascienza, le “guerre stellari” in una realtà. Nessuno avrebbe scommesso che un razzo potesse essere neutralizzato da un altro razzo, in volo e in pochi secondi. Lo scontro produce strisce di luce, quel colore della guerra visto dal kibbutz di Kfar Aza, che è anche una sfumatura di sicurezza difficile da introiettare dopo aver conosciuto l’ansia del pericolo.  All’inizio è stata una lotta contro i mulini a vento, ha detto Gold, che nonostante i primi successi, la fiducia di Obama, e la dimostrazione dell’utilità dell’Iron Dome continuava a essere trattato come l’ingegnere stravagante, quello che aveva violato una direttiva del ministero, con un sorriso sempre impresso sul volto e la voce calma. Nel 2014, durante l’operazione Margine di protezione, diventa un eroe nazionale, le persone lo fermano per strada, si fanno fotografare con lui: è il padre dell’Iron Dome.
I genitori di Daniel Gold sono sopravvissuti all’Olocausto, e lui è convinto che sia stato questo, il dolore comune di tutto il popolo ebraico, ad averlo spinto a pensare alla sopravvivenza, a ogni costo. Lo ha descritto come un moto forte, interno, la necessità di essere sempre un passo davanti al nemico. E lo scorso anno ne è arrivato un altro di nemico: il coronavirus.

 

La pandemia deve avergli ricordato la rabbia provata nel vedere Tel Aviv sola e vuota durante la Guerra del golfo. Da marzo dello scorso anno, il suo dipartimento dentro al ministero della Difesa ha completamente cambiato campo e si è dedicato alla ricerca contro il virus. “In Israele – ha detto al New York Times – se c’è da portare a termine una missione ci si comporta come in guerra. Tutti smettono di fare quello che stavano facendo e mettono energia e creatività sul nuovo obiettivo”. La sua squadra, sempre ampia, sempre con persone da vari settori, sempre orizzontale, si è concentrata su tre questioni: la produzione di ventilatori, aiutare gli ospedali a gestire il sovraffollamento e i test, i veri “game changer”. Ha studiato un tipo di tampone che si basa su respiro, olfatto e intelligenza artificiale con il risultato in sessanta secondi. Come con l’Iron Dome, il tempo e la velocità erano i fattori da incrementare. Contro i razzi e contro il virus. Le circostanze e le motivazioni che hanno portato Gold a sviluppare il sistema antimissile e a cercare il modo di frenare la pandemia sono simili. La rabbia nei confronti della paura, la voglia di libertà, di salvare la vita, il senso di frustrazione di fronte al suo paese vuoto e paralizzato. Il desiderio di fare di Israele non soltanto un paese meraviglioso, ma anche sicuro. Ma questa volta Gold non ha  dovuto lottare contro dei vertici politici ostili, non è più l’ingegnere  fuori dagli schemi, accusato di violare le direttive del ministero della Difesa, ottimista in modo ostinato e dalle pretese fantascientifiche. È il garante della sicurezza in Israele, che parla poco di sé, tanto del suo paese, infinitamente di quello che ancora bisogna fare per proteggerlo, contro tutto, in modo instancabile. A marzo dello scorso anno è stato convocato dal premier Benjamin Netanyahu, ha capito subito che la pandemia era   una minaccia difficile e seria. Si è messo al lavoro, sotto agli occhi fiduciosi degli israeliani, che ormai lo riconoscono e con lui si sentono sicuri. 

 

Daniel Gold continua a lavorare sull’Iron Dome, che assicura sia in evoluzione continua, a maggior ragione dopo l’ultima guerra che ha messo a dura prova la sua resistenza. “Quello di oggi non è certo l’Iron Dome del 2013. Hamas si evolve e noi non possiamo stare fermi”. Al nemico bisogna sempre stare un passo avanti. Israele vive nell’esaltazione dell’Iron Dome che in questi giorni ha fatto vedere di nuovo la sua imprescindibilità. E’ talmente parte della vita del paese, che negli anni è diventato anche un modellino per macchinine, o meglio è tornato a esserlo visto che era stato un giocattolo a ispirarne il design, e i missili Tamir sono diventati un cartone per bambini. Il protagonista è un razzo, Tili, che spiega come funziona, perché esiste, perché scoppia, perché fa rumore e perché dopo il rumore non bisogna avere paura: “Se vedi il fumo nel cielo, se senti il rumore, sono io, il tuo Tili”. Il sistema antimissile è entrato anche nella cultura pop della nazione, parte di quella quotidianità complessa che però non deve fermare il futuro. Tili serve ad  allontanare il senso del pericolo costante, quel liquido più pesante del sangue che una volta entrato nelle vene non esce più, per preservare le ultime generazioni, che sono la garanzia, come ha detto Gold, della continuità di Israele. 

 

Ma oltre all’Iron Dome c’è il resto su cui lavorare, un nemico alla volta,  e uno dei punti fermi dell’ingegnere, che viene spesso chiamato nelle università israeliane per raccontarsi, è: scegli il tuo campo, approfondiscilo, diventa il migliore in quello, ma non affezionartici, occupati anche di altro, reinventati, fa cose nuove, se studi, studia e lavora, se hai studiato e lavori, prendi un’altra laurea, mescolati, ascolta, lavora in gruppo, fianco a fianco,  zero ego e soprattutto salva vite.  

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  • Micol Flammini
  • Micol Flammini è giornalista del Foglio. Scrive di Europa, soprattutto orientale, di Russia, di Israele, di storie, di personaggi, qualche volta di libri, calpestando volentieri il confine tra politica internazionale e letteratura. Ha studiato tra Udine e Cracovia, tra Mosca e Varsavia e si è ritrovata a Roma, un po’ per lavoro, tanto per amore. Nel Foglio cura la rubrica EuPorn, un romanzo a puntate sull'Unione europea, scritto su carta e "a voce". E' autrice del podcast "Diventare Zelensky". In libreria con "La cortina di vetro" (Mondadori)