la vigilia elettorale
L'Iran vota in bianco e nero
C’è un’indifferenza bellicosa verso la politica e i candidati alle elezioni si adattano a questa mestizia, come i due favoriti, Raisi e Larijani. Se si cerca un po’ di colore, resta solo Clubhouse
E’ una vigilia elettorale sonnolenta quella di questa primavera in Iran. Niente palloncini colorati, festoni e spillette con i nomi dei candidati, niente ragazzi sui pattini con le fascette in fronte che invitano ai comizi e agli happening dove si tira tardi. Per chi è interessato alla politica c’è l’app del momento, Clubhouse. Nel frattempo l’astensione è qualcosa di più di uno spauracchio, secondo i sondaggi più di metà della popolazione ostenta un’indifferenza bellicosa nei confronti del potere e persino gli slogan politici, un tempo piuttosto fantasiosi, suonano scarichi: tutti che inneggiano al cambiamento (come nel 2013 e nel 2017 del resto), tutti che hanno l’economia sulle labbra e gli ultimi nel cuore, tutti ad assicurare che non faranno sconti alla corruzione, ma nessuno che abbia l’ardire di alludere roosveltianamente alla felicità come il Rohani prima maniera, se non un candidato per divertimento, uno di quelli che allungano a dismisura la lista del Consiglio dei guardiani, tale Shadman Ahmadinejad (nessuna parentela con il famigerato Mahmoud), che in giacca rossa sgargiante s’è immaginato leader di “un governo felice”, un governo con Khatami agli Esteri, Ahmadinejad (quello che conoscete) all’Urbanistica e Rohani al ministero della Parola. Gli altri, i candidati veri, non ne hanno il coraggio. Non c’è spazio per la felicità nei discorsi di papabili come il capo della giustizia Ebrahim Raisi e l’ex presidente del parlamento Ali Larijani (entrambi diversamente conservatori, entrambi che posano da indipendenti). E’ rimasto solo Mahmoud Ahmadinejad a promettere la luna, ma la sua, come vedremo più avanti, è semmai l’eccezione che conferma la regola. “I problemi economici, l’inflazione, la paura della morte e della malattia hanno drasticamente ridotto la pazienza della popolazione. Altre promesse vuote non faranno che aumentare la distanza tra gli elettori e le urne”, ha scritto domenica scorsa il quotidiano di orientamento riformista, Arman, che ha messo in guardia: “La gente si sposta attraverso la città come polvere da sparo che rischia di esplodere da un momento all’altro”.
Forse qualche guizzo arriverà da qui al 18 giugno, le elezioni iraniane sono notoriamente imprevedibili e tutto si gioca nelle ultime settimane, ma c’è troppa frustrazione nell’aria, troppa voglia di mettere alla gogna i potenti che si vaccinano prima dei comuni mortali (pure il presidente Rohani è stato recentemente costretto a negare di aver ricevuto la bramatissima inoculazione) per cui gli spin doctor suggeriscono misura. I primi video elettorali lanciati da Raisi e Larijani dopo la discesa in campo sono piuttosto banali. Entrambi vengono immortalati mentre formalizzano le candidature. Stessi luoghi, stessi gesti. Senonché, nel caso di Raisi, il candidato, avvolto in una lunga veste nera, è serio, anzi serissimo, spesso di spalle, quasi fuori fuoco; mentre nel caso di Larijani, le immagini sono nitide e smaglianti, sotto la mascherina compare pure un mezzo sorriso e, tra l’effetto rallenty e la musica che non sfigurerebbe in una puntata di “Le Bureau”, la produzione regala al candidato un’aria solida e determinata, il physique du rôle di un rivoluzionario nuova maniera.
Per il resto, alla prova delle prime dichiarazioni, entrambi hanno picchiato duro sul presidente. A Raisi viene facile: nel 2017 ha tentato di sfilare la rielezione a Rohani, ma è stato sconfitto, e in seguito la sua ascesa a capo della giustizia ha coinciso con un’eclatante campagna anticorruzione che ha colpito svariati pezzi grossi, tra cui Fereidun Rohani, l’influente fratello-factotum del presidente. “Alcuni politici tengono riunioni in cui discutono cosa possono ottenere dagli occidentali – ha attaccato Raisi buttandola sull’autarchia e sull’orgoglio nazionale. Se invece si fossero riuniti a discutere di come aumentare la produzione ed eliminare altri ostacoli, molti problemi a quest’ora sarebbero stati risolti”. Raisi ha tre buoni motivi per vincere: la rivalità con Rohani, quella con Larijani e il bisogno spasmodico di evitare una sconfitta che potrebbe influire negativamente sulla prospettiva di succedere alla Guida Suprema, Ali Khamenei. Così la macchina giudiziaria si è messa in moto e i suoi emissari hanno minacciato giornalisti e attivisti colpevoli d’aver pubblicato contenuti negativi nei confronti di Raisi. Nel frattempo, la presenza del campione dei principalisti sulla tv pubblica è diventata martellante. “Manca solo che gli affidino un programma di cucina e gli chiedano di leggere le fiabe ai bambini”, ha commentato sarcastico l’hojatoleslam Mohammed Reza Zaeri.
Per Larijani la partita è altrettanto delicata, perché è in gioco la reputazione di un intero clan (nel 2009, con un volo pindarico un po’ ardito, Time descriveva i Larijani come i Kennedy iraniani), cinque fratelli figli di un ayatollah che grazie a degli ottimi matrimoni e una rete di alleanze inossidabili hanno accumulato cariche, privilegi e una discreta fortuna. Per un decennio, Ali, il fratello che vuole correre per la presidenza, ha controllato il potere legislativo (2008-2020), mentre un altro fratello, Sadegh (2009-2019), è stato al vertice di quello giudiziario. Le stelle s’erano talmente allineate per i Larijani che era Sadegh, a quei tempi, l’uomo indicato dai bookmaker come futuro leader supremo, finché tutto è precipitato, la figlia è stata accusata d’essere una spia, il vice Akbar Tabaripour d’essere anche lui corrotto. E alla fine, nel 2019, lo scandalo ha lambito Sadegh frantumando i suoi sogni di gloria. Khamenei all’inizio è parso ambivalente e la vicenda ha rischiato di travolgere pure Ali. Il purgatorio è durato qualche mese, ma siccome divide et impera è il motto di Khamenei, i Larijani pur indeboliti, sono stati risparmiati dal tracollo, tanto che nel 2020 Ali è riapparso sulle prime pagine dei giornali iraniani in qualità di negoziatore del controverso programma venticinquennale di partnership con la Cina, e da quel momento tutti hanno capito che per il clan non era ancora finita.
La strategia pare improntata a intercettare un misto di conservatori, centristi e riformisti pragmatici, uniti dall’idea che il deal sul nucleare e un allentamento delle sanzioni siano ancora l’unico modo per risollevare la moribonda economia iraniana. In questo schema Larijani da un lato si smarca da Rohani: “Il mio governo non avrà nulla che vedere con il suo”. E dall’altro corteggia il suo elettorato. In un nuovo video pubblicato mercoledì si rivolge direttamente ai cittadini chiedendo, sguardo in camera: “Fino a che punto un governo è autorizzato a intromettersi nella vita privata dei suoi cittadini?”. E dopo una bordata alle sentenze contraddittorie dei giudici (cioè di Raisi che non si è ancora dimesso) ricorda che da ministro della Cultura eliminò il divieto al possesso di videoregistratori. C’è chi negli stessi anni rammenta piuttosto un censore, ma Larijani se ne infischia, la logica che persegue è quella del siate realisti, del navigherete a vista se non vinco io. Il solito voto utile. “Se un negozio non ha i vestiti ideali per vostro figlio non comprereste comunque quel che c’è di meglio sullo scaffale per proteggerlo dal raffreddore?”, ha detto Rohani alla vigilia delle legislative del 2016. E chi lo sa se quella, come sostengono alcuni, era davvero un’altra era geologica.
Per il resto la compagnia dei contendenti è abbastanza variegata: candidati “figli di” come Mohsen Rafsanjani; candidati riluttanti come il viceministro di Rohani, il riformista-light Eshaq Jahangiri; candidati banchieri come Abdolnasser Hemmati, governatore della Banca centrale, indicato da Foreign Policy come uno degli iraniani che potrebbero fare la differenza al tavolo negoziale di Vienna; candidati scienziati come Fereydoun Abbasi Davani, ex direttore dell’Organizzazione per l’energia atomica iraniana, che nel 2010 è sfuggito a un attentato; candidati impresentabili come Abolhassan Firouzabadi, segretario generale del supremo consiglio per la cyber-sicurezza, nella lista dei soggetti fisici sanzionati dagli Stati Uniti per attività di censura; candidati pasdaran come il generale Hossein Dehghan, già ministro della Difesa e consigliere militare di Khamenei, che promette “un governo che cercherà di portare la pace nella vita delle persone”, o come l’arrembante Said Mohammed, già alla guida della tentacolare società di costruzioni Khatam al Anbiya, che rassicura: “Sono contrario alla polarizzazione, a questo continuo parlare di destra e di sinistra, di riformisti e di conservatori”; candidati irriducibili come l’ex capo delle Guardie della Rivoluzione Mohsen Rezai, di cui forse nemmeno la moglie ricorda il numero esatto di volte che ha tentato la via delle presidenziali.
E tuttavia, gli uomini che hanno fatto più parlare nelle ultime settimane sono due candidati che hanno scarse possibilità di passare indenni attraverso la scrematura del Consiglio dei guardiani, personaggi che giocano con il fuoco perché vogliono piantare una bandiera, a futura memoria. Il primo è il già citato Mahmoud Ahmadinejad, ex presidente (2005-2009, 2009-2013), che smessi i panni di campione dell’anti imperialismo occidentale s’è scoperto un democratico liberale a disagio con l’opacità del regime, un candidato-ribelle che tuona: “Le elezioni iraniane sono diventate vuote come un tamburo. Le autorità non pubblicano dati corretti. Se sarò squalificato non sosterrò nessun altro e non voterò”. Non solo, assumendo un tono tra il martire e il profeta, Ahmadinejad ha pure vaticinato la possibilità che settori deviati delle forze di sicurezza stiano pianificando di fomentare dei disordini. Proprio lui che delle trame del deep state di Khamenei è stato il principale benefattore. Il secondo candidato “impossibile” è il riformista storico Mostafa Tajzadeh, che nel presentare la candidatura si è scagliato tanto contro “la pericolosa politica estera anti americana e pro-russa” quanto contro l’interferenza dei pasdaran nella politica e nell’economia. Sposato all’attivista riformista Fakhrossadat Mohtashamipour, Tajzadeh è spesso stato critico nei confronti di Khamenei, ma anche delle leggi che discriminano le donne, incluso l’obbligo del velo. Nel 2009 è stato condannato per aver partecipato alle manifestazioni dell’Onda Verde e ha trascorso sette anni confinato tra il carcere e quella che all’epoca veniva chiamata la “villa dei dissidenti”. Kian Tajbakhsh, un professore di urbanistica che ne ha condiviso la prigionia alla “villa”, lo ha descritto alla New York Review of Books come una persona profondamente ferita dalla deriva del regime. Nel racconto kafkiano della sua odissea, Tajbakhsh dipinge il ritratto di un gruppo di intellettuali che trascorrono le ore a giocare a calcio e a parlare di cosa è andato storto. Nel loro Iran ideale si terranno elezioni libere, ma la religione resterà comunque intrecciata alla politica. Tajzadeh e i suoi compagni sono uomini che ammettono di essere stati “peggio dei Talebani” nei giorni furiosi della rivoluzione e sembrano animati da un misto tra senso di colpa e bisogno di redenzione. Uomini che con tutte le forze, nonostante quello che hanno visto e quello che hanno vissuto, si sforzano di credere che ne sia valsa la pena. Uomini che credono ancora che il tempo sistemerà le cose, uomini che non riescono a guardarsi negli occhi per dirsi che una versione miglior della Repubblica islamica non esiste. L’alienazione dell’elettorato riformista è tutta in questa impossibilità filosofica ed emotiva dei suoi rappresentanti di chiamare le cose con il loro nome, per cui anche quando le milizie massacrano i manifestanti come nell’autunno del 2019, loro restano fedeli all’illusione del gradualismo, al vecchio sogno della Repubblica islamica ideale. E tacciono.
E’ proprio questa sete di verità, il rifiuto dell’ipocrisia che ha determinato l’ascesa di Clubhouse, il social network basato su contenuti audio dove s’è sentito dire che le elezioni sono inutili, che il sistema politico è irriformabile e che l’unica soluzione è liberarsi del regime tout court. Riuniti in stanze virtuali giornalisti, analisti, iraniani in patria e della diaspora hanno parlato in modo imprevedibile di economia, di poesia, di depressione. Soprattutto di politica. Così dopo il successo sono accorsi un po’ tutti, il ventiduenne pronipote di Khomeini, Ahmad, il consigliere militare di Khamenei e candidato tendenza-pasdaran Hossein Dehgan, i ministri di Rohani, Javad Zarif, Javad Azari e Jahromi Eshaq Jahangiri, (candidato riformista), e l’ ex ministro di Ahmadinejad, Rostam Ghasemi. Ma nessuno ha riscosso più entusiasmo di Mostafa Tajzadeh e della travolgente Faezeh Hashemi Rafsanjani che, indifferente al fatto che il fratello si stesse preparando a scendere in campo, è sbottata: “Se il miglior risultato che possiamo ottenere è d’avere qualcuno come il signor Rohani, io non voto!”.