In Myanmar va sempre peggio
Aung San Suu Kyi è riapparsa in un'aula di tribunale. La sfida ai militari che hanno condotto il golpe e i ribelli che non riescono a riorganizzarsi
La Signora dice: “Il nostro partito è stato creato dal popolo ed esisterà finché esisterà il popolo”. Ma la nuova battaglia contro le Forze armate rischia di essere lunga e complicata. Nonostante le controversie, resta lei l'unico antidoto al veleno dei militari
“La chiamo la torta dell’indipendenza. La preparo ogni anno in questo giorno”, aveva detto Aung San Suu Kyi posando sul tavolo una torta coperta da una glassa rossa su cui era disegnato con la crema il pavone simbolo della National League for Democracy. Era il 4 gennaio del 2020. Nel giorno in cui si celebra l’indipendenza della Birmania dalla Gran Bretagna, nel 1948, la Signora aveva invitato una delegazione dell’Associazione per l’Amicizia Italia-Birmania a un tè pomeridiano. “Qui il pavone danza, ma il pavone è un animale che combatte”, aveva aggiunto. Nella tradizione popolare del sud-est asiatico il pavone è considerato un nemico del serpente, e gli viene attribuita la capacità di trasformarne il veleno del cobra in benefico medicinale.
A 75 anni, dopo una lotta di trentacinque anni, quasi venti agli arresti, la Signora continua a combattere e resta l’unico vero antidoto al veleno della tirannide che ha ripreso il pieno potere in Birmania il primo febbraio 2021, quando è stata arrestata per l’ennesima volta.
E’ riapparsa di persona solo il 24 maggio scorso, per trenta minuti, in un’aula di tribunale dove è chiamata a rispondere di una mezza dozzina di reati, dal broglio elettorale, alla violazione delle regole sul Covid, sino all’importazione illegale di walkie talkie. In quella mezz’ora ha finalmente potuto parlare coi suoi avvocati, che l’hanno trovata in buone condizioni fisiche e psicologiche. Le sue dichiarazioni sono suonate di sfida. “Il nostro partito è stato creato dal popolo ed esisterà finché esisterà il popolo”, ha detto per commentare la minaccia dei militari di sciogliere la Nld.
E’ passato poco più di un anno da quell’incontro nel giardino della sua casa di Naypyidaw, capitale dell’attuale Myanmar. Allora, invece, appariva stanca: pochi giorni prima aveva “difeso l’indifendibile” di fronte alla Corte internazionale di Giustizia dell’Onu all’Aia opponendosi alla narrazione globale che aveva trasformato la questione dei rohingya in una metafora della lotta tra bene e male. “E' stata un’esperienza durissima… Mi è costato molto”, aveva detto al Foglio. Aveva dovuto sacrificare alla ragion di stato la sua stessa etica, evitando un confronto con i falchi di Tatmadaw, le Forze armate.
Quel giorno, però, Suu Kyi appariva anche contenta: il suo popolo aveva apprezzato il suo sacrificio. Lo avrebbe dimostrato alle elezioni del novembre di quell’anno, che la Nld ha vinto con l’85 per cento dei voti. Forse è proprio in quel giorno, l’ultimo giorno dell’indipendenza che Aung San Suu Kyi ha festeggiato da donna libera, che s’intrecciano tutte le trame che hanno portato al colpo di stato. La schiacciante vittoria elettorale ha fatto temere ai militari che avrebbe avuto la forza di modificare la costituzione e porre un limite al loro effettivo potere. Al tempo stesso la Signora, opponendosi alle accuse di genocidio rivolte al governo, aveva alimentato l’ostilità dell’opinione internazionale, spesso manovrata da coloro che volevano trasformare la questione rohingya in un nuovo fronte palestinese (non è un caso che i rohingya siano usciti di scena nel momento in cui si è riaccesa la questione palestinese).
Nel frattempo, in Birmania il colpo di stato ha provocato una reazione tanto forte, che ha innescato una repressione sanguinosa (il totale dei morti è ormai vicino al migliaio). Ma questa a sua volta ha determinato l’escalation del confronto etnico, con le Ethnic Armed Organisations che intensificano gli attacchi alle postazioni di confine e addirittura “riconquistano” intere città o villaggi. Tatmadaw risponde innalzando il livello del conflitto con bombardamenti aerei e l’impiego di mezzi pesanti. E’ così accaduto che abbiano colpito una chiesa cattolica dove si erano rifugiati gli abitanti di un villaggio d’etnia kayan. E mentre dai territori etnici fuggono migliaia di persone che cercano di raggiungere la Thailandia o si rifugiano nella foresta, le milizie etniche addestrano quei giovani birmani che non sono più disposti a farsi sparare in testa mentre manifestano. Ed ecco che il neogoverno ombra del National Unity Government (Nug) ha costituito la sua People’s Defense Force (Pdf).
E’ un’opposizione, tuttavia, che appare un po’ confusa (non fosse altro che per il proliferare di sigle), a volte un po’ troppo fondata sul marketing (dimostrato dall’immagine di ex reginette di bellezza in versione Che Guevara), ma soprattutto troppo fiduciosa in un possibile fronte unico delle milizie il cui interesse maggiore resta il controllo del loro territorio e dei traffici che l’attraversano. Forse alcuni membri dell’opposizione sperano anche in un possibile governo di unità nazionale con Tatmadaw. Tanto preoccupati del loro futuro politico da essere disposti a sacrificare la Signora. Difficile da comprendere, ad esempio, perché, pur avendo promulgato una nuova costituzione, non abbiano nominato o almeno proposto la Signora quale presidente.
Le prime crepe sul fronte di Tatmadaw, insomma, stanno illudendo i personaggi in cerca di potere. Il generale Min Aung Hlaing, che si è autoproclamato comandante in capo di Tatmadaw a vita, è sempre più oggetto di critiche da altri generali ufficiali per la sua incapacità nel consolidare il potere conquistato col golpe. Ad aiutarlo è però riapparso Tay Za, il tycoon che ha fatto fortuna col traffico d’armi e con mega-appalti durante gli anni più cupi delle precedenti giunte militari. Dovrebbe essere lui a gestire i rapporti con la Russia, sia per la realizzazione di infrastrutture, sia per i rifornimenti d’armi. Una relazione che sta irritando la Cina, che non vuole interferenze nei suoi progetti di Vie della seta attraverso la Birmania e potrebbe decidere di affidarne il controllo alle milizie etniche.
A complicare ulteriormente una trama oscura e confusa, c’è la difficoltà di avere informazioni attendibili. Le notizie corrono sempre più sui social con tutte le loro contaminazioni. Mentre la stampa d’opposizione è falcidiata dagli arresti. L’ultima vittima è Danny Fenster, caporedattore di “Frontier”, rivista e sito in lingua inglese di un gruppo di giovani entusiasti che stava diventando un piccolo fenomeno editoriale. Fenster, che è cittadino americano, è stato arrestato lunedì mattina all’aeroporto di Yangon mentre stava per imbarcarsi su un volo per Kuala Lumpur. Da là è stato portato nella vicina prigione di Insein, dove sono passati e sono stati torturati gli oppositori ai precedenti regimi.
La dichiarazione di Aung San Suu Kyi, dunque, potrebbe segnare un punto fermo in una situazione sin troppo fluida: in poche parole la Signora ha riaffermato il suo rapporto col popolo, dimostrato che non è piegata e che è decisa a continuare nella lotta. E solo lei potrebbe realisticamente proporsi come interlocutrice in una trattativa coi militari. La sua vecchia amicizia col presidente Biden (risalente agli anni in cui era il vice di Obama) e al tempo stesso i suoi ottimi rapporti col governo di Pechino (con cui aveva stipulato una trentina di mega-accordi commerciali poso prima del golpe), la rendono ancora la possibile regina di questa partita.