Test di purezza in Iran
Khamenei non vuole sorprese, la lista dei presidenziabili è scialba e tutto dice: sarà Ebrhaim Raisi
Ieri, quando a poco più di tre settimane dal voto sono usciti i nomi dei candidati alle presidenziali, gli iraniani hanno capito che quest’anno l’ayatollah Ali Khamenei non è in vena di sorprese. “Il presidente ce l’abbiamo, ora mancano solo le elezioni”, era la battuta che rimbalzava sui telefoni, mentre sugli schermi scorreva moltiplicato in infinite variazioni, tipo Marilyn di Warhol, il volto della capo della Giustizia Ebrahim Raisi. Non ci sono mine vaganti nella lista dei puri: nessun capopopolo furbo e furibondo alla Mahmoud Ahmadinejad; nessun riformista governativo come Eshaq Jahangiri, figurarsi il riformista irriducibile Mostafa Tajzadeh. Ma il colpo di teatro nella lista del Consiglio dei guardiani è tutto nell’assenza pesantissima dell’ex capo del Parlamento Ali Larijani, annoverato dalla maggior parte degli esperti come l’unico avversario credibile all’ascesa di Raisi. Forse troppo, anche perché Larijani ha impostato da subito una campagna elettorale molto aggressiva. “E’ impossibile governare un paese scambiando pelli di pecora e di capra”, ha detto accusando i rivali di voler tornare indietro di tremila anni. E il resto è storia.
La notte prima dell’annuncio ufficiale dell’esclusione, l’agenzia Fars (filopasdaran) aveva già pubblicato la notizia. Larijani è rimasto in silenzio finché ha potuto, poi si è arreso e ha invitato i sostenitori ad accettare le scelte del regime. E’ stato il fratello Sadegh, già capo della Giustizia, a definire “indifendibile” la scelta del Consiglio dei guardiani. Ma il caso Larijani rappresenta più di un esempio delle guerre intestine che stanno consumando l’élite iraniana: il caso Larijani è la cartina di tornasole del clima che si respira nei corridoi del potere di Teheran, dove i partiti non contano, la politica fatta di idee e di programmi non esiste e nessuno è mai puro abbastanza.
Così insieme a Larijani rischia di cadere anche uno dei feticci dell’establishment khomeinista, ossia quello dell’affluenza. Perché il dualismo tra conservatori e riformisti e in seguito tra principalisti e moderati serviva proprio a trascinare più elettori possibili alle urne, dando loro l’illusione di una scelta, così quale che fosse l’esito del voto, la loro stessa presenza avrebbe certificato la legittimità del sistema. Quest’anno però la scelta è quanto di più scialbo il sistema abbia mai prodotto, comprimari di terza categoria, privi tanto di carisma quanto di un retroterra elettorale, cioè candidati che non faranno ombra a Raisi. Si tratta di due deputati conservatori, Alireza Zakani, “principalista” fatto e finito, e Amir-Hossein Ghazizadeh Hashemi, capo del gruppo parlamentare d’amicizia russo-persiana, di un ex negoziatore nucleare, l’inflessibile Saeed Jalili, del capo della Banca centrale iraniana, noto alle cronache per le parole di fuoco contro l’Fmi, Abdolnaser Hemmati, dell’ex capo dei pasdaran Mohsen Rezai, già pluricandidato, e di un riformista gradito a Khamenei, il semi-Carneade, Mohsen Mehralizadeh.
Così con i suoi sette uomini senza qualità, Khamenei potrà attendere il responso delle urne senza doversi preoccupare di folle festanti che prima o poi chiederanno qualcosa di più. Se c’è una cosa che l’esperienza ha insegnato al leader supremo, che privatamente cita la perestroika come l’esempio da rifuggire, è che le promesse di cambiamento sono pericolose e che sulla falsariga di Machiavelli e Tocqueville la cosa peggiore che possa accadere ai cattivi governi è cercare di correggere il tiro.