il foglio del weekend

A tu per tu con una rivoluzionaria

Micol Flammini

L’arresto del marito, la candidatura contro Lukashenka, l’esilio, lo studio, la lotta, la stanchezza e la paura.  Intervista a Svjatlana Tikhanovskaya, leader traghettatrice verso la  Bielorussia che verrà,  e sarà accogliente

Della rivoluzionaria non ha l’aspetto, eppure si è trovata nel bel mezzo di una rivoluzione. Anzi, alla testa di una rivoluzione. Ma poi che aspetto ha una rivoluzionaria? Anche Rosa Luxemburg dalle foto dei suoi comizi appare con graziosi cappellini in testa, merletti e collane ad adornare la sua aria risoluta e limpida. Svjatlana Tikhanovskaya rivoluzionaria lo è diventata per necessità, perché non aveva altra scelta morale se non quella di ereditare la battaglia di suo marito Sergei  e della sua nazione contro il dittatore bielorusso Aljaksandr Lukashenka, e farla sua per le elezioni presidenziali del nove agosto scorso. Sergei Tikhanovski voleva  sfidare il dittatore, ma i suoi comizi erano pieni di gente, la sua rivolta delle pantofole – simbolo della rabbia contro “Lukashenka lo scarafaggio” – attirava in strada persone di ogni età, e il regime lo ha messo in carcere prima che potesse candidarsi. Così ha fatto con altri oppositori, chi non è stato incarcerato è fuggito. E chi è stato incarcerato è in prigione ancora oggi. Svjatlana allora si mise a raccogliere le firme necessarie per presentare la sua candidatura, il regime non cercò di ostacolarla: gli deve essere sembrata assurda la corsa di questa donna giovane, con due figli piccoli, all’apparenza timidissima. Il 14 luglio dello scorso anno Svjatlana Tikhanovakaya si è candidata come indipendente per partecipare alle elezioni presidenziali e sfidare Lukashenka, l’uomo che ha preso in ostaggio la Bielorussia dal 1994. Il resto è accaduto in fretta. I comizi pieni, la musica, l’inno “Peremen”, lo stesso di tutte le rivoluzioni dell’est. La campagna elettorale diventa una festa, che il regime guardava con distacco, ridendo di questa donna dall’aspetto innocuo affiancata da altre due donne, Maria Kalesnikava (in prigione) e Veronika Tsepkala (in esilio). Il nove agosto i bielorussi votano. Prima che lo spoglio finisca, Lukashenka si proclama vincitore con l’80 per cento e ordina alla polizia di distruggere tutte le schede elettorali. Nei seggi si diffonde la voce che i voti erano a larga maggioranza per Tikhanovaskaya. Minsk si riempie di manifestanti, di bandiere, di simboli. Inizia la lotta dei bielorussi per la democrazia e quella di Lukashenka contro il suo popolo, che alle botte non reagisce con la violenza, e che ancora oggi, tenacemente, protesta. Nel tentativo di fermare le manifestazioni, il dittatore inizia a minacciare i rappresentanti dell’opposizione. Tikhanovskaya viene portata nel quartier generale dei servizi segreti, interrogata, intimidita e costretta a pubblicare un video in cui, piangendo, dice che lascerà il suo paese, che non ha senso continuare a lottare, che se ne andrà in Lituania perché ha paura. 

 

 

La Svjatlana Tikhanovskaya di oggi è molto diversa dalla donna di quel video. Alla timidezza è subentrata la risolutezza, agli occhi impauriti, uno sguardo inaccessibile e volitivo. Di quelle lacrime non si vergogna e ancora oggi dice: “In quel momento ero convinta che avrei lasciato stare tutto”. Lukashenka non l’ha mai incontrato. Mentre era interrogata dai servizi, e di quel colloquio non può raccontare nulla, il dittatore non si è mai fatto vedere, ma le mandò a dire che aveva due opzioni: “O il carcere o l’esilio”. “E io – racconta Svjatlana Tikhanovkaja al Foglio – ho scelto l’esilio, con il cuore pesante. Molte persone erano già state costrette a fuggire, è una pratica del regime: in passato quando i leader se ne andavano, le proteste si placavano. Ma questa volta ha commesso un errore, non aveva capito che quanto stava succedendo, quanto sta ancora succedendo, non dipende da me o da un leader, il movimento bielorusso non si è creato attorno a una persona, è stato un moto, un’onda che ha toccato tutti”. Lo stesso desiderio di democrazia che aveva investito prima suo marito Sergei e poi anche lei ha unito la popolazione. E i calcoli che il regime ha sbagliato sono stati tanti, sperava che allontanando la sua rivale i bielorussi si sarebbero sentiti abbandonati. “Credevo anche io che le persone avrebbero reagito così, invece no, mi hanno detto: ‘Svjatlana non ci servi in prigione, in prigione non puoi fare nulla per noi, hai fatto bene ad andartene’. Nel video, mentre dicevo che stavo per lasciare, ero convinta che lo avrei fatto. Una volta arrivata in Lituania, ho deciso di continuare. Da quel momento ho iniziato a sentire una responsabilità crescente”. In Lituania la attendevano già i suoi due figli, portati a Vilnius da una vicina di casa quando ormai era chiaro che Lukashenka non le avrebbe dato tregua. E nonostante la campagna elettorale, le attenzioni, la lotta dei mesi passati, è stato il momento della partenza quello in cui Svjatlana ha capito che tutto nella sua vita sarebbe cambiato. “Durante la campagna elettorale ovviamente era già tutto molto diverso rispetto a come ero abituata a vivere, ma quando sono dovuta andare via, ho sentito che venivo strappata  dal mio paese e che qualcosa dentro di me mi veniva tolto. Mi sono fermata alcuni secondi, ho realizzato che lasciavo la Bielorussia, mio marito in carcere, parte della mia famiglia in un regime e i miei concittadini in lotta. Ora vivo a mezz’ora dal confine bielorusso, non posso tornare. Quando ho iniziato ad avvertire la lontananza, ed è successo subito, ho capito che tutto si stava trasformando, che la lotta contro il regime era ormai a un altro livello”. 

 


“Mi hanno detto ‘o  il carcere o l’esilio’. E io ho scelto l’esilio, con il cuore pesante. Temevo che i bielorussi si sarebbero sentiti traditi” 


 

Svjatlana Tikhanovskaya non aveva mai pensato di fare politica, non aveva mai pensato di combattere, di trovarsi in esilio, di vedere suo marito trascinato in carcere. Lei e Sergei si sono conosciuti giovanissimi, all’università, a Mazyr, dove lei ha studiato inglese. E’ diventata interprete, ha fatto l’insegnante, ma negli ultimi anni si dedicava ai suoi figli e alla famiglia. Neppure suo marito  si occupava di politica. Parlando con le persone però si era accorto che i suoi problemi erano i problemi di tutti, ed erano problemi  ingiusti perché determinati da un regime che non lasciava la Bielorussia vivere in tutte le sue potenzialità e Sergei aveva deciso di iniziare a raccontarlo su YouTube. Per la famiglia tutto è cambiato in fretta. Gli altri sfidanti di Lukashenka, Viktar Barbarika (in carcere) e  Valery Tsepkala (in esilio), sono un banchiere e un diplomatico, potevano immaginare che la loro carriera li avrebbe portati alla politica, ma per Sergei è stato tutto inaspettato. Ancora di più per Svjatlana, che oggi si trova accusata di terrorismo, lontana dalla sua famiglia, a condurre una vita da esule. Se tornasse in Bielorussia, rischierebbe la pena di morte, come Raman Protasevich, l’attivista arrestato dal regime di Minsk dopo il dirottamento del volo Ryanair che viaggiava da Atene a Vilnius. La stessa tratta, una settimana prima, l’aveva fatta Svjatlana, che in Grecia aveva incontrato anche Raman. Lukashenka ha dirottato l’aereo con la scusa di una bomba a bordo, ha fatto girare una mail di minaccia di Hamas, mandata da un indirizzo mail fasullo creato due giorni prima della partenza della leader dell’opposizione. Tutta la strategia per dirottare un aereo forse era stata messa in piedi per fermare lei. Ma o è mancata l’organizzazione, o a Lukashenka è mancata l’audacia. 

 

E’ una vita da perseguitata, ricercata, esiliata, quella di Tikhanovakaya e lasciare, mollare, è un pensiero che la tormenta: “Tutti i giorni penso che non ce la faccio più. Sento una tale stanchezza, non soltanto fisica. Mi sveglio con il pensiero di tutti i bielorussi in carcere, vivono in camere minuscole con il terrore di essere torturati. Appena sento la stanchezza, mi assale il pensiero che la stanchezza è una sensazione che loro non possono permettersi, perché non fanno, non vivono, sono costretti a stare immobili. Lavoro tutto il giorno con questa consapevolezza e la sera torno a casa e i miei figli mi domandano ‘dov’è papà? quando torna? quando lo rivedremo?’. I bambini sono così, non smettono di fare domande, e io rispondo, ma non so come si comporterà il regime, perché il regime non segue dei princìpi morali. Questi pensieri costanti, sapere che ci sono tantissime famiglie nella nostra situazione, mi spingono ad andare sempre avanti. Sento la responsabilità di una Bielorussia che mi cammina accanto”. 

 


“Si parla sempre di democrazia pensando che sia il potere del popolo, ma credo che la democrazia sia prima di tutto responsabilità”


 

Svjatlana rivoluzionaria lo è diventata, fuori dalla Bielorussia si è ritrovata a interagire con ministri, presidenti, il primo a incontrarla è stato Emmanuel Macron, poi Angela Merkel. Ha cominciato a viaggiare, a essere ricevuta ovunque, a parlare costantemente con i rappresentanti delle istituzioni europee. E per fare tutto questo si è messa a studiare, “non sapevo nulla di come funzionasse l’Ue, non sapevo nulla di diritto, di leggi internazionali”. Così è cambiata, è diventata più sicura, e il suo obiettivo è non far spegnere la causa bielorussa, ricordare alla comunità internazionale che a Minsk “c’è una Chernobyl dei diritti umani”, c’è gente che viene torturata, che muore o si uccide perché non le è permesso di vivere in un paese democratico. “E dire che noi la democrazia non sappiamo neppure bene cosa sia, ma il desiderio è forte. Si parla sempre di democrazia pensando che sia il potere del popolo, ma la democrazia, credo sia prima di tutto responsabilità. Vuol dire che quello che accade nel tuo paese è anche merito o colpa tua, perché in un sistema democratico  tu sei coinvolto nella vita politica. Ma la democrazia va imparata, noi non potremo passare direttamente dalla dittatura alla democrazia, sarà un processo, ma sono sicura che otterremo ciò per cui stiamo combattendo e non sprecheremo i nostri sacrifici”. Spesso la situazione della Bielorussia viene accostata a quella della Russia, lei, Svjatlana, ad Alexei Navalny. Ma per lei sono contesti molto diversi. “C’è una somiglianza, le persone lottano per i propri diritti e le proprie libertà e per questo finiscono in galera. Ma in Bielorussia ci sono state delle elezioni e Lukashenka ha perso, la maggioranza ha votato per me e io sono dovuta andare via. Dico sempre che in Bielorussia c’è una rivoluzione, in Russia sono proteste. Quello che ho notato è che spesso nei paesi occidentali e democratici viene messo tutto insieme: proteste, marce, rivoluzioni”. E’ un processo, insiste la leader, quello che sta accadendo in Bielorussia non è accaduto in un giorno, a ogni elezione ci sono state manifestazioni, ma non erano mai state così. “Poi è arrivato il Covid che il regime ha negato, non ha gestito, le persone hanno cominciato ad attrezzarsi, cercare mascherine, aiutare negli ospedali, e si sono chieste a cosa servisse Lukashenka se i bielorussi riescono a organizzare da soli la risposta alla pandemia. In questa atmosfera è iniziata la campagna elettorale”. 

 

Lukashenka, dice Svjatlana Tikhanovskaya, non si arrenderà prima che avrà portato tutto al collasso e poi ci sarà una nazione intera da ricostruire, elezioni da organizzare, investimenti da fare e da attrarre. E Svjatlana alla fine del regime ci pensa, è in grado di sognarla, dice che per accelerare la fine della dittatura si può solo aumentare la pressione internazionale, e poi starà ai bielorussi essere bravi. “Siamo stati privati di tanti anni di democrazia e benessere, usciremo da un regime che ha frenato il nostro sviluppo economico e tecnologico, un regime che sa soltanto costruire trattori e mungere mucche. Bisognerà recuperare e sono sicura che verremo aiutati”. Quando parla del dopo, sembra quasi che Svjatlana il futuro ce l’abbia davanti agli occhi, si immagina il suo rientro, il rientro di tutti i dissidenti, come un giorno di festa nazionale. Immagina l’abbraccio con suo marito, l’abbraccio di un popolo che si riunisce. E fino a lì, fino a quel momento sarà lei il capo dell’opposizione, poi è pronta a fare un passo indietro. “Il mio compito è organizzare delle nuove elezioni, favorire la transizione del potere, ma non voglio candidarmi. Rimarrò come garanzia che nessuno dei nostri sacrifici verrà buttato via, ma non sta a me dirigere il paese”. A lei spetta il compito di dirigere la rivoluzione, ma come tutti i rivoluzionari sa che poi la politica è un altro affare. Dicono che anche Lech Walesa si sia pentito di essere diventato presidente della Polonia dopo aver guidato la liberazione  dal comunismo, ma soprattutto dicono si sia pentito di essersi candidato per la seconda volta: perse la presidenza del paese in cui aveva fatto la rivoluzione.
Svjatlana Tikhanovkaya è più cauta, dice che il suo impegno è un dovere morale, ha a che fare con l’anima, che le manca la sua nazione  e che tornerà, ma da cittadina, non da presidente.  

 


“Quando Lukashenka non ci sarà più butteremo via i mobili vecchi, sarà una ristrutturazione di massa, e ricostruiremo la nostra Bielorussia


 

Poi, mentre parla del suo paese da ricostruire si ferma, si toglie la mascherina con la bandiera della Bielorussia che verrà – quella bianco-rosso-bianca delle proteste, non quella rosso-verde del regime – beve e sembra che i suoi progetti le appaiano chiari, davanti, forti, come una rivoluzione messa in pratica: “Ci sono certi vecchi appartamenti da noi, li chiamiamo gli appartamenti della nonna, dove tutto è rimasto immobile dai tempi sovietici. I mobili vecchi, la moquette per terra, i tappeti sulle pareti. Vedi l’appartamento e vuoi ristrutturare tutto, buttare i materassi sfatti, i tavoli in formica, i centrini, i fiori finti. Sai che ci vorrà del tempo, fai fatica, ma immagini già quanto sarà bello iniziare a riarredare tutto di nuovo. Pregusti quanto tutto ti sembrerà luminoso, pulito, ordinato. Ecco, è questa la sensazione che provo a immaginare la Bielorussia senza Lukashenka. Pregusto il senso di libertà, di giustizia, di sicurezza, quando il regime non ci sarà più. E ora voglio fare tutto il possibile affinché il mio appartamento, la mia casa, la mia nazione, diventino, belli, confortevoli, vivibili. E sono sicura che senza la dittatura arrederemo il nostro paese in modo che in tanti vorranno venire da noi a investire, sarà tutto trasparente e onesto. E’ così che voglio vedere il mio paese, so che non succederà subito, ma sono sicura che tanti paesi ci verranno in soccorso. Ora – riprende Svjatlana Tikhanovskaya – ho la sensazione di essere in mezzo ai mobili vecchi, tutto è scuro, opprimente. Butteremo via tutto, una ristrutturazione di massa, e ricostruiremo la nostra Bielorussia”.

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  • Micol Flammini
  • Micol Flammini è giornalista del Foglio. Scrive di Europa, soprattutto orientale, di Russia, di Israele, di storie, di personaggi, qualche volta di libri, calpestando volentieri il confine tra politica internazionale e letteratura. Ha studiato tra Udine e Cracovia, tra Mosca e Varsavia e si è ritrovata a Roma, un po’ per lavoro, tanto per amore. Nel Foglio cura la rubrica EuPorn, un romanzo a puntate sull'Unione europea, scritto su carta e "a voce". E' autrice del podcast "Diventare Zelensky". In libreria con "La cortina di vetro" (Mondadori)