Chi è Ebrahim Raisi, il candidato favorito alla presidenza dell'Iran
Uno sconosciuto fino al 2015. Poi tutto d’un tratto l’archivio si è rimpolpato ed eccolo nella nomenklatura. Cosa c’è dietro ai suoi sorrisi imbarazzati e le sue poche parole
Se fosse un colore Ebrahim Raisi non potrebbe che essere grigio. Mai che replichi a una domanda con la prontezza di un Javad Zarif, mai che si lasci attraversare dai lampi di furia glaciale che saettano dietro gli occhiali del presidente Hassan Rohani. Davanti alle telecamere tende ad abbassare lo sguardo e a stringere le labbra, quasi che temesse di lasciarsi sfuggire una parola di troppo, e per via del tono monocorde, dei (rari) sorrisi velati d’imbarazzo, per via dell’abitudine a dilungarsi in estenuanti invocazioni coraniche e dell’eloquio che, nel migliore dei casi è banale e nel peggiore robotico, l’aggettivo più abusato per descriverlo è: reticente.
Eppure Raisi è l’uomo del momento, il predestinato, l’apprendista della Guida suprema Ali Khamenei e su Telegram si moltiplicano i meme del suo volto barbuto che giganteggia come una nuvola sopra le teste di elettori ai quali non resta altro che chiedersi: “Raisi, Raisi o Raisi. Oppure Raisi?”. Poiché Raisi il taciturno, Raisi l’introverso è diventato ubiquo, e pazienza se gli difetta il carisma. Bloccando la corsa di Ali Larijani, il Consiglio dei guardiani gli ha di fatto spianato la strada e nessuno pare più in grado di insidiarne il trionfo, o anche solo di appannarne lo smalto. All’immagine ci penseranno gli spin doctor, magari proprio Mojtaba Amini, il produttore della serie tv “Gando”, la “Homeland” versione Teheran in cui i buoni sono i pasdaran, che è recentemente entrato a far parte del suo team di consiglieri. Nel frattempo, la televisione di stato lo tratta come se avesse già vinto. “Oggi sta visitando il mausoleo dei martiri. Questo indica forse il nuovo approccio della futura Amministrazione, inshallah?”, gli ha domandato un giornalista e mancava solo che si piegasse in un inchino.
Siccome, come recita il proverbio persiano, i vincitori hanno famiglie numerose e i perdenti sono orfani, di pari passo all’avanzata di Raisi cominciano a smottare gli schieramenti e a riconfigurarsi le alleanze. Secondo l’Isna, un gruppo di riformisti potrebbe sostenere la sua campagna elettorale. Il portavoce dei diretti interessati ha negato, ma l’Irna è ritornata sul tema confermando l’esistenza di un nuovo quartier generale di “moderati e riformisti per Raisi”, guidato secondo le indiscrezioni da un insider navigato, vicino al defunto ex presidente Ali Akbar Hashemi Rafsanjani. “Il curriculum di Raisi presenta più riforme di quelle che possono annoverare quelli che inneggiano al cambiamento”, si leggeva alcuni giorni fa sul quotidiano Sedaye Eslahat (voce dei riformisti) che, tanto per sottolineare il concetto, titolava in grassetto: “Il capo riformista” – sfruttando l’assonanza tra il nome di Raisi e la parola rais che in farsi significa “capo”.
Il protagonista intanto seguita a schermirsi con uno sfoggio di falsa modestia: se ha deciso di presentarsi alle elezioni è esclusivamente “per unire il paese” e risolvere i “problemi della gente”; e proprio perché non è mosso dall’ambizione, Raisi assicura di “non riconoscersi in nessuno degli schieramenti in campo” e di essere a tutti gli effetti “un candidato indipendente”. Lo sanno anche le pietre naturalmente da che parte sta Raisi, ma l’aspetto interessante della faccenda è che per rendersi appetibile agli elettori, il candidato che aspira a tutto – il 18 giugno all’ufficio di Rohani e un domani a quello di Khamenei – sente il bisogno di distanziarsi il più possibile da sigle, partiti e rassemblement che agli occhi degli elettori sono solo scatole vuote.
“Sei di destra o di sinistra?”, chiede un uomo a un altro durante un colloquio di lavoro, nel film “Shaere zobale-ha” (il poeta dei rifiuti) scritto da Mohsen Makhmalbaf e diretto da Mohammed Ahmadi. “Sto in mezzo”, risponde quello che cerca lavoro. “In mezzo cosa vorrebbe dire?”, lo incalza l’altro. “Che mi schiero dalla parte del lavoro. Voglio vivere. Da qualsiasi parte va bene”.
“Destra o sinistra?”, si intestardisce l’uomo che offre lavoro. “Be’, non so. La destra e la sinistra continuano a scambiarsi il posto. Ieri erano di sinistra, oggi di destra, domani ancora di sinistra. Signore non lo so…”. Il film è del 2005, ma la confusione di allora oggi è cupo disincanto.
Tra il 2005 e il 2021 sono franati prima il mito del gradualismo e della democrazia islamica di Mohammad Khatami, poi quello egualitario e renvascista di Mahmoud Ahmadinejad e infine quello del pragmatismo di Rohani. I ragazzi traboccanti di ideali che a cavallo degli anni duemila sognavano la libertà sono adulti che non riescono a permettersi il pollo, ad affittare una casa, o a guardare una serie senza che salti la corrente. Stanchi, disillusi ed esasperati, i più andranno ad allungare le fila degli iraniani che opteranno per il boicottaggio delle urne, una tendenza che quest’anno rischia di assumere proporzioni inusitate (la partecipazione al voto è prevista in una forchetta che va dal 30 al 40 per cento, a seconda delle stime).
E gli altri, gli elettori di Raisi, saranno un misto di fedelissimi del regime e di persone che voteranno augurandosi semplicemente che, in mano a un luogotenente di Khamenei, uno che non potrà invocare l’alibi del fuoco amico, funzionino meglio le scuole, i trasporti e gli ospedali. Nel 2017, quando la gara era con Rohani, 15 milioni di elettori hanno scelto Raisi. Non erano tutti invasati pronti a scendere in piazza gridando “marg bar Amirka!”, morte all’America. “Rohani dice che non si può fare questo e non si può fare quello. Tutte scuse – spiegò quella primavera un sostenitore di Raisi a Deutsche Welle – Lui ci darà quello che ci spetta. Lui è diverso, non pensa ad arricchirsi”. Che Raisi sia diverso, mite, umile e modesto, che ami i bambini, le montagne e le tradizioni lo dice la propaganda martellante del regime. “Manca solo che gli affidino un programma di cucina e gli chiedano di leggere le fiabe ai bambini”, ha commentato sarcastico persino un conservatore come l’hojatoleslam Mohammed Reza Zaeri.
Ma chi sia davvero Raisi è un enigma. Dal punto vista ideologico è sempre attento a non discostarsi dall’ayatollah Khamenei. Sul deal nucleare, nel 2017 fece intendere che non gli piaceva, che lo turbava l’idea stessa che un dirigente iraniano potesse sedere davanti a un americano, ma chiarì pure che un accordo era un accordo, e che se se fosse stato eletto lo avrebbe rispettato.
In campo economico, si presentò come un campione dei diseredati, il classico mantra dei rivoluzionari d’antan e promise di triplicare i sussidi di Ahmadinejad. “Oggi il 30 per cento dei nostri giovani è senza lavoro. Vogliamo aiutarli o dobbiamo aspettare che siano gli stranieri a risolvere i nostri problemi?”. E tuttavia le sue ricette, tutte ispirate a un populismo solo un poco meno arrembante di quello di Ahmadinejad, restano avvolte nell’indeterminatezza. Quando parla di lotta alla corruzione, alla povertà e all’incompetenza, quando assicura che nelle sue mani la disillusione si trasformerà in speranza, l’impressione è che Raisi non scopra le carte, che pretenda dagli elettori una professione di fede – e la domanda resta: chi è Raisi?
Perché prima del 2015 nulla lascia presagire che diventerà un astro nascente della nomenklatura. Raisi è ancora un esponente semi-sconosciuto del deep state, un magistrato influente, ma non abbastanza da essere rintracciato facilmente su Google. E poi d’improvviso, si rimpolpano gli archivi e il volto di Raisi fa la sua comparsa nell’iconografia di regime: ecco Raisi, procuratore generale che parla in occasione dell’anniversario della presa dell’ambasciata americana (2015); eccolo mentre sorride con deferenza filiale all’ayatollah Khamenei (2016); ecco Raisi seduto su una sedia e Qassem Soleimani accanto, ma per terra, a gambe incrociate (2017); eccolo al mausoleo di Khomeini che scalda la platea per il leader supremo (2016); e di nuovo a Mashad davanti a una folla gremita che lo osanna (presidenziali del 2017); ecco Raisi che taglia il nastro del complesso edilizio riservato alle famiglie di “martiri” afghani caduti in Siria (2017); ecco Raisi sul confine tra Libano e Israele accompagnato da una delegazione di Hezbollah (2018) e ancora Raisi che compare, a sorpresa, per essere onorato sul sito dell’ayatollah Khamenei (2019).
“L’inizio della quinta decade dalla rivoluzione richiede un cambiamento nel settore giudiziario (…), nuove energie per una nuova èra, appropriata alla seconda fase della rivoluzione”. Nella foto che illustra l’annuncio dell’ascesa di Raisi al vertice della magistratura, Khamenei gli sta poggiando una mano sulla spalla e i due sono vestiti allo stesso modo, turbanti neri perché entrambi vantano una discendenza dal profeta, colletti bianchi, vesti beige e leggeri mantelli di mussola della stessa tonalità dei copricapi. L’impressione che se ne ricava è che l’intesa tra i due sia sincera, Raisi per una volta si apre in un sorriso meno tirato di quelli con cui viene immortalato di solito e a riavvolgere il nastro delle loro storie, Khamenei e il suo protetto in effetti hanno parecchio in comune. Sono entrambi nati a Mashad, la città santa dei safavidi, cresciuta attorno al santuario dell’Imam Reza. Hanno entrambi frequentato il seminario di Qom, dove nessuno dei due si è distinto per una particolare erudizione. Né l’uno né l’altro ha completato il cursus honorum per assurgere al titolo di ayatollah, il “segno di dio”: Khamenei ci è arrivato “per decreto” prima di diventare leader supremo e se Raisi riuscirà nell’impresa di succedergli è probabile che l’iter sarà lo stesso. A oggi però resta un hojatoleslam.
Stando alle cronache, Raisi è stato un allievo di Khamenei, ma per entrambi l’apprendistato religioso ha rappresentato un mezzo piuttosto che un fine. Khamenei è sempre stato un politico, Raisi un pubblico ministero. Forse è proprio questa consuetudine con la macchina giudiziaria iraniana che gli ha insegnato a centellinare informazioni, sta di fatto che i cenni biografici che lo riguardano sono particolarmente scarni. Di lui si sa che ha due figlie, una moglie chiamata Jamileh, figlia del leader della preghiera del venerdì di Mashad, l’ayatollah Ahmad Alamolhoda; si sa che è nato il 14 dicembre del 1960, in un villaggio vicino a Mashad, che il padre Seyed Haji, era un religioso e morì quando Raisi era bambino, e si sa pure che le condizioni economiche della famiglie erano tutt’altro che floride. “Io ho assaggiato la povertà, non ne ho solo sentito parlare”, ha sottolineato dando l’avvio alla campagna elettorale e si tratta probabilmente della frase più personale che abbia mai pronunciato. Le uniche informazioni sulla giovinezza di Raisi lo vedono a Mashad negli anni della scuola primaria, e a Qom a partire dalla prima adolescenza. Non è noto quali siano le sue frequentazioni a quei tempi, quanto sia autentico il fervore e quanto l’opportunismo, quel che è certo è che dopo la rivoluzione il nuovo regime ha bisogno di una classe dirigente, e che, quando l’ayatollah Beheshti decide di selezionare settanta ragazzi da inserire nella neonata magistratura khomeinista, Raisi si trova al posto giusto al momento giusto.
Di lì in poi l’ascesa è costante. A vent’anni, è procuratore aggiunto a Karaj, ma in men che non si dica è già diventato procuratore tanto a Karaj quanto a Hamedan, due distretti a trecento chilometri di distanza. Cinque anni dopo, Raisi è viceprocuratore della corte rivoluzionaria di Teheran e si fa abbastanza notare da ricevere ordini diretti da Ruhollah Khomeini, che gli assegna incarichi rilevanti nelle province del Lorestan, di Kermanshah e di Semnan. E’ la sua stagione nel famigerato “comitato della morte” che liquida migliaia di prigionieri politici, la stagione che lo ha inserito nella lista nera del dipartimento di stato americano. Poiché quando arriva il momento della repressione, il timido procuratore sfodera un piglio risoluto da esecutore determinato, preciso, inflessibile. Nel 1990, Raisi viene premiato con l’incarico di procuratore generale di Teheran, un ruolo che ricoprirà per cinque anni, quando la sua carriera registra un ulteriore scatto con la direzione dell’Organizzazione dell’ispettorato di stato, un organo anticorruzione che si muove sotto l’ombrello dell’autorità giudiziaria. Nella decade che segue, il suo destino resta saldamente ancorato alla magistratura, Raisi è il vice di figure di prima grandezza come l’ayatollah Hashemi Shahroudi prima e di Sadegh Amoli Larijani, poi.
Risale all’epoca in cui è il numero due di Larijani la prima battuta d’arresto nella sua paziente e inesorabile corsa verso il potere, allorché torna a ricoprire l’incarico di procuratore generale, una posizione di minore responsabilità rispetto a quella che ricopriva all’Organizzazione dell’ispettorato generale. E forse è proprio in questo momento che s’aggrava la faida con i Larijani, culminata con l’eclatante squalifica di Ali (fratello di Sadegh) da parte del Consiglio dei guardiani. Ma per Raisi il purgatorio s’interrompe nel 2016, quando l’ayatollah Khamenei lo nomina custode del santuario dell’Imam Reza e da quel momento in poi, Raisi non è più un vice. A capo della potente fondazione Astan Quds Razavi, controlla tre province e gestisce interessi che vanno dall’agricoltura, al settore energetico alle costruzioni, che da sole valgono più di 20 miliardi di dollari. Non basta. Nel 2019, si vendica di Sadegh Larijani e diventa capo della giustizia, nel 2021 beffa il fratello Ali e si avvia a prendersi la presidenza. Secondo l’agenzia Fars, vincerà la presidenza con il 72 per cento dei voti. E nessuno ricorda più che cinque anni fa Raisi era uno sconosciuto.