Il ministro della Difesa Lorenzo Guerini parla alla cerimonia dell’ammaina bandiera (foto di Daniele Raineri) 

Via dall'Afghanistan

A Herat Guerini ammaina la bandiera della missione italiana

Dopo il ritiro da Kabul, molti scommettono sui talebani

Daniele Raineri

Il ministro celebra i risultati (e i caduti), ma dice: “Sono consapevole della complessità”. Il salto nell’ignoto. Entro l’estate, le truppe americane e quelle della Nato andranno via. I talebani vogliono riprendersi tutto quello che considerano loro, quindi l’intero paese. L’Amministrazione Biden spera che il governo di Kabul possa e sappia resistere. I soldati americani smantellano tutto quello che non possono portarsi via, comprese le tende tagliate a striscioline. Lo Stato islamico intanto approfitta del vuoto e fa stragi indicibili

Herat, dal nostro inviato. “Sono consapevole della complessità”, dice il ministro della Difesa italiano, Lorenzo Guerini, dentro all’hangar degli elicotteri di Camp Arena di Herat, nel settore ovest dell’Afghanistan che per la maggior parte degli ultimi vent’anni è stato il centro delle operazioni italiane qui. E’ la cerimonia dell’ammaina bandiera davanti a file di soldati italiani, americani e albanesi sull’attenti per salutare la fine della missione internazionale Resolute Support, che a partire dal 2015 aveva sostituito Isaf – è stato il momento nel quale le attività dei soldati occidentali hanno cominciato a concentrarsi sull’addestramento delle forze militari afghane, che sono quelle che devono sopportare il peso della guerra. “Shona bo shona”, spalla a spalla, come dice Guerini, con un’espressione in lingua dari che è diventata molto familiare a chi ha partecipato alla missione. Suonano le note del silenzio per ricordare i caduti, cinquantatré, trentuno dei quali in combattimento, su cinquantamila italiani in divisa che hanno preso parte a rotazione alla campagna infinita contro la guerriglia talebana. 

 

   

Complessità è un termine caritatevole usato dal ministro per dire che da ora in avanti può accadere qualsiasi cosa. Il ministro parla di risultati importanti e di sicuro l’Afghanistan è un paese diverso da vent’anni fa. Il generale paracadutista Beniamino Vergori spiega che in tutti questi anni di servizio ha visto i soldati afghani fare progressi incredibili e diventare molto più preparate e reattive e solide di quanto fossero all’inizio, quando i militari della Nato avevano messo piede a Kabul e a Herat, i due grandi poli dell’impegno militare internazionale nell’est e nell’ovest del paese. Guerini parla del fatto che ci sono molte discussioni dentro alla Nato su come continuare ad aiutare le forze di sicurezza afghane e dice che di sicuro l’Italia continuerà a contribuire “per il rafforzamento delle istituzioni”, per aiutare la cooperazione e per finanziare progetti civili – evita con cura le parole “supporto militare”.

 
Nella cerimonia che celebra i risultati ottenuti dalla missione in Afghanistan, il ministro Guerini parla  anche dell’operazione “Aquila”, per portare in salvo in Italia gli interpreti oppure i collaboratori afghani che hanno aiutato i soldati italiani. Per ora sono 270 incluse le famiglie, ma ci sono ancora 400 casi che sono in corso di valutazione. 

 
E’ la complessità: la missione militare ha lavorato per la stabilizzazione del paese e la sicurezza degli afghani nella lotta ai fanatici talebani, ma è meglio se portiamo via i traduttori perché altrimenti rimarrebbero esposti alle rappresaglie e alle violenze. La complessità è anche l’incidente diplomatico con gli Emirati arabi uniti, che blocca a metà volo l’accesso del volo della Difesa con a bordo i giornalisti italiani allo spazio aereo emiratino e costringe il Boeing a tornare indietro per un pezzo e ad atterrare in Arabia Saudita, perché non c’è abbastanza carburante per imboccare rotte alternative. Uno sgarro mirato per punire gli italiani delle recenti frizioni diplomatiche e ottenere un buon ritorno di notizia (un aereo carico di giornalisti). E c’è da chiedersi ancora una volta come sia cambiata la percezione dell’occidente in questi venti anni di conflitti. Lo standing internazionale di Stati Uniti ed Europa sembra esserne uscito ammaccato.
A questo punto, e per farla breve, l’Afghanistan è diventato l’oggetto di una scommessa enorme. C’è chi scommette che dopo il ritiro delle truppe americane (tremila) e di quelle della Nato (settemila, inclusi novecento italiani) cominciato il primo maggio e da finire entro l’estate, i talebani si riprenderanno tutto quello che considerano loro, quindi l'intero paese, per ristabilire di nuovo un Emirato islamico come negli anni Novanta. Con tutte le scene che si vedevano prima del 2001: lapidazioni, esecuzioni negli stadi, donne flagellate in pubblico. 

 
E c’è chi scommette che invece il governo centrale di Kabul resisterà, nel senso che manterrà il controllo della capitale e dei centri urbani più importanti e non sarà inghiottito dalla guerriglia talebana che è molto forte nelle campagne. Il governo afghano si troverà altri alleati internazionali che non saranno più l’America e i partner europei – quali è troppo presto per dirlo. E sarà la faccia illuminata del paese, mentre nella faccia rimasta al buio i diritti umani torneranno qualche secolo indietro o vent’anni indietro, che è la stessa cosa. 

     

Annotazione numero uno: lo scenario più ottimista per il governo di Kabul è riuscire a mantenere la situazione come è adesso e non perdere altri chilometri preziosi di territorio; lo scenario migliore per i talebani è invece prendersi tutto. Già da questo si capisce lo spirito della faccenda, è un assedio. Annotazione numero due: quelli che scommettono sui talebani si sentono più sicuri di quelli che scommettono sul governo.  

 

Tra chi punta sulla vittoria dei talebani ci sono molti soldati afghani che si arrendono – e succede già adesso, quando le truppe occidentali sono ancora nel paese, figurarsi quando se ne andranno. Si sta creando un effetto domino alimentato dalla disillusione e dal morale basso che potrebbe portare alla perdita di molte regioni. Un fortino si arrende, quindi anche nel fortino vicino pensano “perché dobbiamo essere proprio noi a combattere una guerra che è già persa” e si arrendono, e così la pressione si concentra sul fortino dopo che a sua volta si arrende e così via. E’ una capitolazione a catena. I talebani convincono i vecchi dei villaggi ad andare a parlamentare con le guarnigioni, a mediare e a convincere i soldati che se restano saranno uccisi e che non ne vale la pena perché tanto i talebani sono più forti e l’esito finale è già scritto. Spesso i guerriglieri tagliano le vie di rifornimento, isolano gli avamposti del governo fino a quando quelli non restano senza munizioni. Non arrivano quasi mai rinforzi da fuori perché la campagna di controinsurrezione afghana è una coperta troppo corta, se intervieni in un luogo con più uomini vuol dire che lasci sguarnita un’altra posizione. Certi fortini afghani sono isole lasciate a se stesse in un mare di guerriglieri ostili. Quando c’erano le truppe americane bastava una chiamata per ottenere appoggio aereo e dissolvere l’assedio, chi vuole può andare a vedere su YouTube, ci sono decine di filmati di soldati americani che chiamano i jet e poi aspettano i bombardamenti puntuali come l’arrivo di un treno in metropolitana che cadono con esattezza a poche centinaia di metri dai cancelli e fanno scappare i talebani. Ma adesso i soldati americani stanno facendo i bagagli. 

 

Vediamo i numeri di maggio, che rendono meglio l’idea di cosa sta succedendo. Nella prima settimana di maggio sono stati uccisi almeno 140 soldati del governo afghano. Nella seconda settimana, da venerdì 7 maggio a giovedì 13 maggio, sono stati uccisi almeno 107 soldati del governo afghano. Nella terza settimana, da venerdì 14 maggio a giovedì 20 maggio, sono stati uccisi almeno venti soldati del governo afghano. Nella quarta settimana, da venerdì 21 maggio a giovedì 27 maggio, sono stati uccisi almeno settantadue soldati del governo afghano. E da venerdì 28 a lunedì 31 maggio sono stati uccisi almeno altri 46 soldati del governo afghano. Fanno 405 soldati uccisi a maggio. Nello stesso mese, ventisei fortini si sono arresi e sono passati nelle mani dei talebani. E ora una notizia dallo Spiegel che non c’entra ma in qualche modo c’entra. I soldati tedeschi hanno il problema di come smaltire ventiduemilacinquecento litri di birra, vino e champagne prima dell’addio all’Afghanistan. In parte li caricheranno su un aereo da trasporto Antonov noleggiato per portare via materiale e quel che resta lo distruggeranno sul posto. 

 

A volte i talebani telefonano per giorni agli ufficiali afghani assediati, li persuadono che ogni resistenza è futile, battono sempre sul tasto dell’ineluttabilità – un tasto che anche in occidente piace molto, quanti articoli sono stati scritti in questi anni sull’Afghanistan tomba degli imperi. Meglio accettare la sconfitta e abbandonare le postazioni perché il destino del paese non si può cambiare (più che citare la spedizione di Alessandro Magno nel trecento avanti Cristo sarebbe più attuale citare l’appoggio del Pakistan ai guerriglieri in tutti questi anni). Dicono, i capi talebani al telefono: “Abbiamo sconfitto gli americani, possiamo sconfiggere anche te, ricordatelo prima di essere ucciso”. Tra le condizioni per la resa i talebani offrono un passaggio sicuro fuori dalla zona dei combattimenti, in modo che nessuno faccia del male ai soldati che si sono arresi. Danno loro abiti civili, così possono tornare alle loro famiglie mischiati tra i viaggiatori normali. E a volte anche soldi: 130 dollari, come bonus liquidazione. In cambio i soldati si arrendono, consegnano le armi e tutto l’equipaggiamento (spesso fornito dagli americani e del valore di milioni di dollari) ai talebani, giurano di non arruolarsi più pena la morte se catturati di nuovo e lasciano i loro numeri di telefono e il nome delle famiglie per essere controllati e identificati anche molto tempo dopo la resa. A volte si sottomettono anche a dei video che raccontano la capitolazione – e accelerano l’effetto domino. Se i talebani li uccidessero, alimenterebbero un ciclo di rappresaglie familiari e tribali e rafforzerebbero lo spirito combattivo degli altri soldati. Invece così posano migliaia di soldati del governo a lato della scacchiera, dove non possono più essere pericolosi, e a volte catturano guarnigioni intere senza sparare un colpo. A guardare le regioni dove le linee di difesa del governo si stanno scollando si vede che i punti critici sono a Baghlan, a Laghman e a Maidan Wardak, tutte zone rurali disposte in modo concentrico attorno alla capitale Kabul e lontane una cinquantina di chilometri. I talebani si stanno posizionando per il balzo sulla capitale – che avverrà un giorno lontano, quando i tempi saranno maturi e quando non ci saranno più le truppe straniere e i raid aerei. 

 

Herat, Afghanistan. La base di Camp Arena (foto Ufficio Stampa Difesa/Daniel Paciarelli/LaPresse) 
  

Soprattutto i raid aerei, come abbiamo detto, perché le truppe straniere non hanno più ruoli di combattimento da quando l’operazione Enduring Freedom è finita nel 2014. Enduring Freedom, Libertà duratura, era il nome della campagna americana antiterrorismo in risposta agli attentati dell’11 settembre e centrata soprattutto sull’intervento in Afghanistan. Oggi quel “duratura” suona ironico, considerato che in vent’anni molte zone sono tornate sotto i talebani. Gli americani offrivano copertura aerea, droni, intelligence, logistica, ma non erano più boots on the ground da tempo, a parte le missioni delle forze speciali. 

 

Ci sono anche i soldati afghani che non si arrendono. A fine maggio il New York Times ha pubblicato un reportage dall’Afghanistan dalla zona di Laghman a ovest di Kabul. Il fotografo Jim Huleybroek scatta l’immagine di un poliziotto con un fucile sulla spalla e una fionda in mano in un avamposto a Mehtarlam. “I talebani arrivano di notte e ci sparano – dice Najibullah, è il nome dell’agente (in Afghanistan spesso non ci sono cognomi) – io non posso rispondere al fuoco, ci sono pochi proiettili nel mio caricatore. Ho una fionda e un sasso, per ogni evenienza. Un mio amico è stato colpito quando un colpo di mortaio è finito sul posto dove dormiamo. Il suo sangue è ancora sui muri”. L’inviato David Zucchino intervista il comandante Zindani, rimasto con nove uomini a difendere un altro avamposto. Zindani considera i soldati che hanno disertato dai tre forti vicini dei traditori dell’Afghanistan. Quando i capi talebani lo chiamano per convincerlo alla resa, risponde: “Sono un soldato del mio paese, non sono qui per arrendermi”. Tra tutti hanno una mitragliatrice e un lanciarazzi e ciascuno ha un fucile. Uno dei suoi soldati, Muhammad Agha Bombard, spiega al giornalista che lui combatte perché i talebani gli hanno ucciso due fratelli e non si arrenderà mai. Quattro giorni dopo l’intervista i talebani assaltano il fortino, uccidono uno dei soldati, fanno prigionieri gli altri e girano un video. C’è Bambard, ferito e sdraiato su un materasso per terra, interrogato da un capo talebano che gli chiede in tono sarcastico perché aveva scritto su Facebook che non avrebbe mai permesso ai talebani di conquistare il suo avamposto a costo della vita. 

 

Dal punto di vista formale l’Amministrazione Biden scommette invece che il governo resisterà. “Continueremo ad appoggiare le forze di sicurezza afghane”, ha detto il segretario di Stato Antony Blinken, “sono una forza solida”. L’appoggio promesso sarebbe del tipo cosiddetto “over the horizon”, da oltre l’orizzonte, quindi raid aerei che partono da una portaerei americana in navigazione nell’oceano Indiano, ma non è ancora chiaro quanto intenso sarebbe questo appoggio: si ipotizza che i raid aerei americani arriverebbero soltanto nel caso di missioni antiterrorismo importanti – per esempio uccidere un leader dello Stato islamico o di al Qaida. I droni partiranno invece dalle basi americane nel Golfo, ma adesso saranno nove ore di volo all’andata e altre nove al ritorno, fa un mondo di differenza nelle operazioni per dare la caccia a obiettivi significativi. L’inviato speciale americano per l’Afghanistan, Zalmay Khalilzad (il nome è afghano perché lui era afghano prima di prendere la cittadinanza americana da giovane e fare una spettacolare carriera diplomatica), ha detto che la paura che i talebani conquistino Kabul è esagerata, lui prevede che i talebani si concentreranno sui negoziati per trovare un accordo politico con il governo afghano e non sulla guerra. Vorranno spartirsi il potere perché non vogliono diventare di nuovo dei paria internazionali come erano negli anni Novanta. Non puntano a sanzioni e isolamento, sostiene Khalilzad, che sarebbero il prezzo da pagare se provassero a sottomettere l’Afghanistan con le armi. Però Khalilzad è l’uomo che deve vendere il ritiro americano, difficile sentire dire da lui che le cose andranno male. 

 

Dal punto di vista pratico gli americani non scommettono sulla tenuta del governo. I soldati seguono disposizioni precise e stanno facendo a pezzi milioni di tonnellate di equipaggiamento che non possono portare via dal paese a bordo degli aerei – anzi, l’equipaggiamento è così tanto che non hanno nemmeno il tempo di fare una cernita per capire cosa possono trasportare e quindi: distruggono. Un articolo di Associated Press racconta come a Bagram, storico ed enorme aeroporto militare, gli americani abbiano tagliato le tende in striscioline di stoffa e abbiano ridotto a ferraglia schiacciata veicoli e condizionatori d’aria e un infinito assortimento di materiale. L’equipaggiamento distrutto forma montagne di avanzi metallici e di altro, per la disperazione dei rigattieri locali, che non capiscono perché gli americani stiano distruggendo tutto quel ben di Dio. Loro compreranno lo stesso quella roba, ma intatta valeva molto di più e avrebbero fatto molti più soldi a rivenderla in giro per l’Asia. I veicoli anche non funzionanti possono essere smontati in tanti pezzi di ricambio e cannibalizzati da altri veicoli, la stoffa integra era molto migliore per farci affari e così via. Il fatto è che gli americani temono che possa finire tutto in mano ai talebani, come del resto sta già succedendo adesso: si è perso il conto di quanti veicoli corazzati e di quante armi sono stati consegnati dagli americani alle forze di sicurezza afghane soltanto per finire in mano ai guerriglieri, strappati durante una razzia oppure tramite vendita diretta. C’è questo rito per i viaggiatori stranieri della foto con le carcasse dei vecchi corazzati sovietici che ancora punteggiano l’Afghanistan, relitti della sconfitta degli anni Ottanta. Ecco, gli americani non vogliono vedere sorgere un Emirato talebano in Afghanistan che usa i blindati Humvee prodotti negli Stati Uniti per equipaggiare la polizia religiosa e riceve dignitari cinesi dentro stanze rinfrescate da condizionatori pagati dai contribuenti. Secondo Gandhara, un sito che raccoglie notizie da Afghanistan e Pakistan, dentro la base di Kandahar che gli americani hanno consegnato agli afghani in primavera è nato il Bush Market, dal nome del presidente americano George W. Bush, che ordinò l’inizio di Enduring Freedom nel 2001 dopo le stragi delle Torri gemelle e del Pentagono. E’ un mercato dove si vende tutto quello che i militari americani hanno lasciato sul posto – il governo nega che tra le pile di materiale dismesso ci siano anche armi o munizioni. 

 

Di fatto, gli Stati Uniti hanno appaltato ai talebani le operazioni antiterrorismo in Afghanistan. E’ una frase che vent’anni fa non avrebbe avuto senso, ma la Storia è girata così. Come se fra vent’anni la Chiesa annunciasse un processo di beatificazione per Donald Trump per la sua opera di volontariato a beneficio degli immigrati. Può essere, ma oggi fatichiamo a immaginarcelo. In teoria, l’accordo di pace con l’America costringe i talebani a rompere le relazioni con al Qaida, il gruppo terroristico con il quale c’è un rapporto organico da molti anni – tecnicamente gli uomini di al Qaida prima dell’11 settembre 2001 giurarono fedeltà al capo dei talebani Mullah Omar (morto nel 2013) e questo legame politico-religioso non si è interrotto. La stragrande maggioranza degli esperti sostiene che la pretesa “rottura delle relazioni” non è ancora avvenuta e che se mai avverrà sarà una finzione per accontentare i creduloni. I talebani intanto continuano a rivendicare attentati suicidi con veicoli-bomba contro i soldati afghani, l’ultimo mentre questo pezzo va in stampa. 

 

I talebani sono in guerra contro lo Stato islamico, che li considera murtaddin, apostati, quindi musulmani che hanno abbandonato l’islam – persino peggio che infedeli e questo vuol dire che devono essere uccisi. Lo Stato islamico in Afghanistan (sigla in inglese: ISKP, Islamic State Khorasan Province, dove Khorasan è un antico nome usato per la regione) a maggio ha pubblicato un video di due ore per spiegare ancora una volta che i talebani devono essere sradicati ed era così pieno di dettagli interni che era chiaro come a parlare fosse qualcuno che in passato ha fatto parte dei talebani. Lo Stato islamico accusa i talebani di essere nazionalisti, vale a dire concentrati soltanto sulla causa afghana e non su quella del Califfato globale; di essere in combutta con l’intelligence pachistana, quindi con un governo tirannico e – di nuovo – apostata; di lucrare con il traffico di stupefacenti e infine anche di avere accettato accordi di pace con gli americani. Sono accuse difficili da smentire e il risultato è che i guerriglieri afghani e quelli dello Stato islamico oggi continuano a combattersi senza pietà nelle valli remote del sud-est e in luoghi sperduti dove ormai il controllo del governo centrale è soltanto un ricordo sbiadito. Il Washington Post ha scritto che in alcuni casi gli aerei americani sono intervenuti per bombardare lo Stato islamico durante gli scontri con i talebani “ma senza coordinarsi” e quindi di fatto si sono comportati come “l’aviazione dei talebani”. Reuters scrive che c’è un accordo segreto fra talebani e truppe occidentali, i guerriglieri afghani garantiscono protezione alle basi del contingente straniero dai fanatici dello Stato islamico durante il ritiro. Nella scelta quotidiana fra il male e un male minore in Afghanistan, siamo arrivati a questa situazione: i talebani proteggono – secondo Reuters – il ritiro dei soldati stranieri dai possibili attacchi di gente ancora più fanatica. I talebani lo fanno per ovvio interesse, se il ritiro si svolge rapido e senza intoppi è tutto tempo guadagnato. Se un camion bomba dello Stato islamico uccidesse soldati stranieri, la scadenza del ritiro potrebbe slittare di nuovo come è già slittata nel passaggio da Trump a Biden – dal primo maggio all’11 settembre.

 

E come stanno andando queste operazioni antiterrorismo dei talebani? Sabato 8 maggio tre bombe sono esplose davanti alla scuola Sayed al Shuhada di Kabul proprio in coincidenza con l’orario di uscita. E’ una scuola per bambine hazara, la minoranza sciita che in Afghanistan è spesso bersaglio dei fanatici sunniti. Il bilancio dei morti è arrivato a cento, una delle stragi più gravi dal 2001, e molte vittime sono bambine. I sospetti di tutti sono contro lo Stato islamico, però a differenza di altre volte non è arrivata la rivendicazione – a volte si comporta così perché questo tipo di attentati orrendi e l’intollerabile ambiguità causano tensioni con il governo. Nei primi giorni di giugno lo Stato islamico ha fatto saltare in aria quattro bus negli stessi quartieri hazara mentre circolavano nel traffico, sono bersagli facili, basta applicare una bomba adesiva e scappare via. In un’esplosione sono morte dieci persone, in un’altra quattro, è il caos completo nella capitale. Questi attentati sono stati rivendicati dallo Stato islamico, che ha chiarito i motivi: sono proprio attacchi contro gli sciiti. Un articolo di AP spiega che gli uomini dello Stato islamico hanno occupato un quartiere centrale nella città di Jalalabad e si sono impadroniti del business dei tuk-tuk, le motorette a tre ruote che fanno da taxi. Monitorano tutto, raccolgono informazioni. Pochi giorni fa lo Stato islamico ha rivendicato un attacco esplosivo contro un convoglio dell’intelligence afghana che attraversava il centro di Jalalabad. Nel primo quadrimestre del 2021 gli attacchi targati ISKP sono stati 77, contro i 21 nello stesso periodo dell’anno scorso. E’ il segno che affidare agli afghani, siano essi del governo o siano della guerriglia, la lotta allo Stato islamico non è una buona idea. E tutto questo accade mentre il ritiro del contingente occidentale non è ancora finito. 

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  • Daniele Raineri
  • Di Genova. Nella redazione del Foglio mi occupo soprattutto delle notizie dall'estero. Sono stato corrispondente dal Cairo e da New York. Ho lavorato in Iraq, Siria e altri paesi. Ho studiato arabo in Yemen. Sono stato giornalista embedded con i soldati americani, con l'esercito iracheno, con i paracadutisti italiani e con i ribelli siriani durante la rivoluzione. Segui la pagina Facebook (https://www.facebook.com/news.danieleraineri/)