Il G7 di Biden, tradotto: tutti contro la Cina
Si cerca un'alleanza strategica tra Washington e Ue che metta in sicurezza la complicata catena di approvvigionamento tecnologica. Kurt Campbell, l'artefice della politica anti Pechino del presidente americano, è una vecchia conoscenza
Il presidente americano Joe Biden è arrivato in Europa con un obiettivo preciso: consolidare l’alleanza di contenimento della Cina. E’ anche per questo che oltre al Gruppo dei grandi, questo G7 per la prima volta sarà aperto ad altri quattro paesi: Australia, India, Corea del sud e Sudafrica. I primi due, insieme al Giappone e all’America, fanno anche parte del Quad, il Quadrilateral Security Dialogue su cui l’America punta molto per creare una nuova struttura coordinata anti-Pechino. L’ascesa della Cina come potenza globale e influente è quasi un’ossessione per l’Amministrazione americana, specialmente nel settore della tecnologia. Si parla già di un’alleanza strategica tra Washington e Unione europea che metta in sicurezza la complicata catena di approvvigionamento tecnologica, ma gli ospiti a questo G7 e soprattutto la diplomazia della Casa Bianca di Biden ci dicono che il contenimento della Cina passa soprattutto attraverso una nuova rinnovata alleanza con i paesi asiatici.
Questa priorità della politica estera di Biden ha un nome e un volto: più che al segretario di stato Antony Blinken, bisogna guardare a un diplomatico originario di Fresno, in California, già molto conosciuto all’epoca dell’Amministrazione di Barack Obama. E’ Kurt Campbell, sessantatré anni, nominato a gennaio da Joe Biden zar delle questioni asiatiche, ovvero direttore delle politiche americane nei confronti dell’Indo-Pacifico (che non si chiama più Asia-Pacifico proprio per sottolineare il coinvolgimento dell’India). Dal 2009 al 2013 Kurt Campbell è stato l’assistente dell’allora segretario di stato Hillary Clinton, ed è l’autore del famoso “pivot to Asia”, la strategia politica con cui l’America voleva tornare a dare priorità all’area del Pacifico, su cui nel 2016 ha scritto un libro molto popolare tra i diplomatici internazionali. E’ l’uomo che nel 2011 scortò Joe Biden, che allora era vicepresidente, in un famoso viaggio a Pechino in cui era accompagnato dal suo omologo Xi Jinping – oggi entrambi sono leader delle prime due economie del mondo. La Cina allora era guardata con speranza come un paese con cui poter stabilire un rapporto di collaborazione fruttuoso, e nelle email che inviava a Clinton durante quel viaggio, Campbell parlava di una diplomazia molto particolare, interessante ma “imprevedibile”. Subito dopo arrivò la disillusione: Pechino voleva competere con l’America, non essergli amica.
Sono passati dieci anni dalla strategia del “pivot to Asia”, e in questi dieci anni è cambiata la politica di Pechino – sempre più forte e assertiva – ma è cambiata anche l’America, dopo i quattro anni piuttosto confusi di Donald Trump che hanno contribuito ad allontanare Washington dai suoi amici di sempre, come il Giappone e la Corea del sud. Martedì scorso, parlando al Center for a New American Security, Campbell ha detto che “negli ultimi due anni il paese che ha creato più problemi alla Cina non è l’America, ma la Cina stessa”, e che la leadership di Xi è sempre più concentrata “in un ristretto gruppo di persone” che prendono decisioni, rendendo difficile il lavoro della diplomazia. Al ministero degli Esteri cinese si guarda sempre con molta attenzione a quel che dice Campbell. Quando un paio di settimane fa ha detto che il “paradigma dominante” tra Cina e Stati Uniti è quello “della concorrenza”, perché “il periodo dell’engagement con la Cina è finito”, gli ha risposto il portavoce degli Esteri di Pechino, il falco Zhao Lijian: “La Cina respinge fermamente gli sforzi degli Stati Uniti per escludere, contenere e reprimere la Cina sotto la bandiera di concorrenza”. Per Kurt Campbell la sfida del futuro è convincere gli alleati americani, dall’Asia all’Europa, che bisogna difendere il modello democratico e l’ordine liberale: “C’è quasi un’industria sotterranea di amici della Cina che prevede il declino americano, una sorta di profezia secondo la quale il capitalismo americano sia in fase di declino e che sia arrivato il momento della Cina. Dobbiamo convincere non solo noi stessi, ma l’intero Indo-Pacifico e i paesi europei che siamo determinati a svolgere il nostro ruolo di primo piano, ed è giunto il momento per l’America di concentrarsi sulla strategia dell’Indo-Pacifico”. La politica estera americana va sempre più a est.