The Narrative
Quando c'entra Israele i giornalisti diventano attivisti woke, ci dice Matti Friedman
“La maggior parte delle persone vuole un mondo in bianco e nero, come nei libri per bambini: chi è il mostro? Chi è la principessa? I social media incoraggiano questo processo di semplificazione. La gente vuole credere che il peggio sia negli altri"
La nuova coalizione che domenica dovrà ottenere la fiducia alla Knesset, il Parlamento israeliano, “non sarà facile da gestire e potrebbe non durare a lungo”, dice al Foglio Matti Friedman, “ma riflette in modo interessante e positivo la società israeliana, dalla destra alla sinistra, includendo per la prima volta un partito arabo. E non un partito arabo qualunque, ma il Movimento islamico che oggi è guidato da uno tra i politici più intelligenti del paese, Mansour Abbas”. Matti Friedman, poco più che quarantenne felice di vivere a Gerusalemme perché “quando sei qui questo è un posto reale, non un ideale o una questione da risolvere”, scrive su molti giornali internazionali, dal New York Times all’Atlantic, e scrive libri, l’ultimo è stato pubblicato da Giuntina nell’aprile scorso, si intitola “Spie di nessun paese. Le vite segrete alle origini di Israele”. Friedman indaga la storia e il passato per raccontare l’attualità con uno sguardo che si discosta parecchio dal modo con cui si parla solitamente di questa parte di medio oriente. Non siamo “una questione” che riguarda confini, attacchi, territori espropriati, muri e deboli tregue, dice: siamo persone, popoli, intrecci, storie, contaminazioni, e tanta, tantissima convivenza. “La gente tende a pensare che la linea di divisione tra ‘arabo’ ed ‘ebreo’ sia molto definita e immagina gli ebrei in Israele come degli europei bianchi. Ma più vivi qui, più ti accorgi che le cose sono molto più sfumate. Metà degli ebrei che abitano in Israele ha radici nel mondo islamico, in paesi come il Marocco, lo Yemen, la Siria. Le prime spie di Israele – che sono le protagoniste del suo ultimo libro – erano ebrei che potevano tranquillamente passare per arabi, forse perché le loro identità arabe non erano affatto fittizie. Erano nativi del mondo arabo e questa è una grande parte di quel che Israele è oggi, una cosa che moltissimi in occidente trovano difficile da capire. Nel 2021, è molto più importante conoscere e comprendere questo Israele, l’Israele mediorientale, più che l’Israele delle origini, del socialismo e dei kibbutz”.
In realtà oggi si comprende molto poco di Israele in tutte le sue declinazioni identitarie ed è su questo tema che si sviluppa il lavoro giornalistico di Friedman. “Quando ho iniziato a lavorare per la stampa internazionale quindici anni fa, qui a Gerusalemme, pensavo che avrei lavorato con persone curiose rispetto a questo paese complicato. Ce n’erano, ma i media si stavano già muovendo verso un attivismo di sinistra radicale camuffato da giornalismo. Le storie da raccontare venivano scelte in modo politicamente corretto: aiuteranno le persone giuste? Serviranno a fare giustizia? Tutto quel che rappresentava i palestinesi come agenti del proprio destino, cioè come degli adulti che prendono decisioni, veniva minimizzato, perché i palestinesi esistevano soltanto in quanto vittime di Israele. Così in una guerra a Gaza, per esempio, vedi molti morti civili ma nessun combattente di Hamas. E sentirai parlare moltissimo delle ingiustizie in Cisgiordania, che ovviamente esistono, ma pochissimo dell’obiettivo del movimento nazionale palestinese che è quello di distruggere Israele e sostituirlo con uno stato arabo”. Nel 2014, Friedman pubblicò due lunghi articoli sulla sua esperienza come giornalista dell’Associated Press, che fecero molto scalpore perché erano dettagliati e puntuali nel descrivere la trasformazione della narrazione di Israele. Ma “la copertura dei fatti non è cambiata, anzi forse è peggiorata”, dice, anche se diminuisce il numero di persone che crede davvero a “questa fantasia ideologica tanto palese”.
Quando dice che la copertura è peggiorata, Friedman si riferisce al fatto, risultato molto chiaro durante l’ultimo conflitto a Gaza, che l’attivismo ha fatto un passo ulteriore: difendere i palestinesi è difendersi contro il razzismo, perché Israele è uno stato “apartheid” e Black Lives Matter diventa Palestinian Lives Matter, lo stesso fronte, la stessa battaglia. “L’accusa di apartheid fa parte di una campagna denigratoria nata della propaganda sovietica negli anni Settanta che ora ha ripreso quota nel mondo intellettuale e accademico. Ci sono molti paesi che hanno problemi razziali ed etnici, come gli Stati Uniti per dire, ma apartheid si usa in questo specifico caso, anche se la posizione strategica del partito arabo Ra’am nella coalizione di governo in Israele e il desiderio di integrazione di molti cittadini arabi evidentemente la contraddicono”. Cambia qualcosa? No, perché “la narrazione anti Israele racconta solo in modo tangenziale il paese che è oggi”, questo posto reale in cui Friedman cresce i suoi quattro figli (“è un paese fatto per le famiglie”, dice). “Il ruolo degli ebrei nelle società occidentali è da sempre quello di essere uno schermo vuoto in cui gli altri possono proiettare quel che di maligno vedono nel mondo, epoca dopo epoca. Può essere l’avidità, o l’essere anticristiani, o il comunismo, il capitalismo, il nazionalismo, il cosmopolitismo, va bene tutto. Ora i liberal occidentali sono preoccupati delle diseguaglianze e del razzismo, e allora lo stato ebraico viene presentato come un esempio primario di queste problematiche. Ha tutto poco a che fare con Israele e moltissimo con le più ataviche debolezze della civiltà occidentale. Le religioni antiche sbiadiscono, ma certe idee persistono in ideologie che pensano di non essere delle religioni, che sia il ‘socialismo nazionale’ o il comunismo sovietico o la nuova ideologia ‘woke’ dove la virtù è collegata al colore della pelle. L’ebreo è utile come un’immagine dell’altro. In un prossimo secolo ci saranno ordini diversi di problemi e l’immagine degli ebrei cambierà di conseguenza”.
Un miglioramento secondo Friedman non è possibile, bisognerebbe aver voglia di guardare le sfumature, le differenze, di capire le cose complicate, ma “la maggior parte delle persone vuole un mondo in bianco e nero, come nei libri per bambini: chi è il mostro? Chi è la principessa? I social media incoraggiano questo processo di semplificazione. La gente vuole credere che il peggio sia negli altri. Quindi Israele non è soltanto un altro paese che cerca di esistere nel mondo, commettendo degli errori, ma un complotto malevolo contro la giustizia. Questo è il mondo in cui viviamo, e dove andrà ce lo chiediamo tutti”.
Nel presente, Friedman si augura che il nuovo governo di Israele entri in carica e che la transizione sia morbida. Intanto lui si occupa del suo prossimo libro, che ancora una volta parla delle persone e della convivenza: “E’ l’incontro del grande poeta Leonard Cohen con una guerra d’Israele”.
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