Preservare la Repubblica islamica
L'ordine khameneista
La Guida Suprema d’Iran non varca i confini nazionali dal 1989 e questo spiega tutto della sua strategia di conservazione dell’interesse superiore del regime. Anche ora con le elezioni, e per la sua successione
La prima generazione costruisce, la seconda tenta di preservare e la terza distrugge, diceva il filosofo Ibn Khaldun a proposito dell’origine e del tramonto degli imperi. Ed è nel perimetro di questo paradigma, a metà tra la nostalgia del passato e la paura di quello che potrebbe venire, che si muove l’ayatollah Ali Khamenei giorno dopo giorno, elezione dopo elezione. Preservare la Repubblica islamica d’Iran e consegnarla alla seconda generazione è la missione che è stato chiamato ad assolvere ed è sempre questo il leitmotif che risuona sotto traccia nei suoi discorsi, il filo rosso che determina le alleanze e le inimicizie, la logica implacabile che, dopo ogni atto di ferocia, gli permette di guardarsi allo specchio e poi d’assolversi. Perché il maslahat, l’interesse superiore del regime, si compie tutto nella durata, e se è naturale per un sistema politico ambire alla permanenza, a dispiegare la propria funzione nel tempo, la peculiarità dell’ordine khomeinista è d’interpretare il tempo come fine piuttosto che come strumento, al punto che qualsiasi principio, qualsiasi ideale, può essere sacrificato sull’altare della sopravvivenza.
“Quando sono all’estero, io rappresento il sistema nella sua interezza e quindi mi ritrovo a difendere anche cose in cui non credo”, ha spiegato il ministro degli Esteri Javad Zarif in un’intervista illuminante al quotidiano Etemad: “E mi può anche capitare di difendere azioni che nella mia opinione non vanno affatto incontro al nostro interesse come nazione”, ha puntualizzato, chiarendo, di fatto, che tra l’Iran e la Repubblica islamica, tra l’Iran come stato e comunità nazionale da un lato e l’Iran come causa e proiezione di un gruppo di potere dall’altro, è sempre il secondo a prevalere.
Di questo Iran strenuamente anticosmopolita e antiaristocratico, un Iran bipolare, insieme bellicoso e isolazionista, devoto e retrogrado, tronfio eppure irrimediabilmente incline al vittimismo, Khamenei è sempre stato il custode, ma siccome ha superato gli ottant’anni, siccome da più di un decennio si rincorrono le voci che lo vogliono alle volte malato, alle volte moribondo, e addirittura ciclicamente morto, siccome nel frattempo il Covid ha falcidiato i seminari, decimando le fila della prima generazione rivoluzionaria, e siccome la stabilità di un regime non democratico si valuta misurando lo stato di salute del suo leader da un lato, e la capacità della sua élite di trasferire il potere in modo incruento dall’altro, negli ultimi mesi la stampa internazionale ha preso a interrogarsi sempre più spesso sul “dopo Khamenei”.
Gli occhi al momento sono tutti puntati verso Ebrahim Raisi, il favoritissimo, candidato alle presidenziali del 18 giugno, talmente fiacco davanti alle telecamere che il giorno dopo la sua apparizione al primo dei tre dibattiti elettorali in programma, il suo staff ha preteso dalla tv pubblica la concessione di un certo numero di “minuti riparatori” per consentirgli di difendersi dalle accuse dei rivali. Annoverato come una figura in ascesa a partire dal 2016, Raisi è apparso lanciato verso la successione a Khamenei quando, a dispetto della sconfitta contro l’attuale presidente Hassan Rohani alle presidenziali del 2017, la propaganda di regime ha seguitato a seguirlo passo passo, a immortalarlo un giorno in provincia, circondato da capannelli festanti, e un altro nella capitale, in piedi, dentro un autobus, sobrio e senza pretese, come il mullah della porta accanto. “Mi può spiegare come mai il telegiornale della sera parla di lei come di Superman?”, gli ha chiesto l’ex capo della Banca centrale Abdolnaser Hemmati, come a dire: la bellezza e il carisma saranno pure negli occhi di chi guarda, ma lei possiede tutto tranne che il physique du rôle del supereroe. Però il carisma, a giudicare dalla traiettoria di Khamenei, non è esattamente la qualità principale di un’aspirante guida suprema. “Sono solo un piccolo seminarista”, si schermì il rahbar (la “guida” in farsi) dal podio, il giorno dell’investitura. Era il 4 giugno 1989, Khamenei aveva cinquant’anni, era stato presidente per otto e il suo era il classico sfoggio di falsa modestia d’uso nelle gerarchie clericali. Sta di fatto che all’epoca, la captatio benevolentiae funzionò e i più finirono con il sottovalutare il piccolo seminarista. “Gli occidentali sono contenti dell’elezione dell’ayatollah Khamenei, si augurano che governi la moderazione e che gli elementi più radicali siano emarginati”, si legge, ad esempio, nei diari del demiurgo Ali Akbar Hashemi Rafsanjani.
Per tornare a Raisi, che nel grigiore e nel tratto vagamente riluttante rassomiglia al primo Khamenei, l’impressione che sia destinato a qualcosa di grosso si è cristallizzata un paio di settimane fa, dopo che il Consiglio dei guardiani ha escluso dalla corsa per le presidenziali Ali Larijani ed Eshaq Jahangiri, ossia i candidati che avrebbero potuto metterlo in difficoltà. Ciò detto, c’è anche chi, come l’ex editorialista del quotidiano ultraconservatore Keyhan, Mehdi Nasiri, è convinto che le macchinazioni del Consiglio rappresentino una zavorra per Raisi. Così lo discreditano, ha spiegato, adombrando complotti e paventando il rischio che l’intervento dei Guardiani consolidi l’immagine di un personaggio debole, forse troppo, per aspirare a salire davvero in alto.
L’altro nome molto chiacchierato nei discorsi sulla successione è quello di Mojtaba, il figlio di Khamenei. Nato a Mashad nel 1969, secondo di quattro figli, ha sempre operato nell’ombra, senza rendere conto a nessuno, se non al padre. A differenza dei fratelli, Masoud e Mostafa che si sono dedicati agli studi religiosi a Qom, Mojtaba ha prediletto la politica alle disquisizioni dogmatiche. Di lui si racconta che sia un uomo d’azione, nel beit, l’ufficio di Khamenei, si è conquistato la fama del risolutore. Quando nel 1989 morì Ruhollah Khomeini, in quest’ufficio lavoravano circa 80 persone, ma stando al Zürcher Zeitung, che ne ha scritto nel 2019, il numero di impiegati del beit avrebbe raggiunto la cifra monstre di quattromila unità. L’espansione fisica e simbolica della struttura è dovuta in larga parte agli sforzi di Mojtaba, perché è sotto la sua guida che l’ufficio si è trasformato in un sistema complesso, a cui fanno capo più di cento organizzazioni oltre a una pletora di comitati e sottocommissioni. All’interno di questo labirinto il figlio di Khamenei ha creato e via via potenziato due centri di potere: un servizio di spionaggio trasversale a 17 agenzie e un poderoso apparato di propaganda che incide direttamente tanto sulla radio e sulla tv di stato quanto sull’influente network degli imam della preghiera del venerdì. Gran parte delle storie che circondano Mojtaba – storie di corruzione, di ripicche e di vendette – sono difficilmente verificabili, ma tratteggiano l’immagine di un uomo che pensa e decide veloce. Dipenderebbero da lui alcune delle scelte che Khamenei ha poi rimpianto, come la selezione come presidente dell’incontrollabile Mahmoud Ahmadinejad. Secondo le indiscrezioni sarebbe stato Mojtaba, nel 2005, a suggellare le ambizioni di Ahmadinejad e sarebbe stato ancora lui, nel giugno del 2009, a convincere il padre a manipolare il responso delle urne prima, e a sopprimere le manifestazioni nel sangue poi.
Riguardo al tema della repressione padre e figlio sono sempre stati dell’avviso che qualsiasi cedimento sia foriero di catastrofi, ma è Mojtaba a essersi ritagliato un ruolo di coordinamento in questo campo, grazie anche alla collaborazione dello spietato Hossein Taeb, leader della milizia Bassij, in seguito promosso a capo dei servizi di intelligence dei pasdaran. L’antica consuetudine con personaggi come Taeb, la fitta rete di relazioni nel deep state e il controllo del beit hanno creato attorno a Mojtaba un alone di inevitabilità: del resto chi meglio del figlio potrebbe garantire la continuità a Khamenei?
Tuttavia, anche in questo caso, siamo nel regno delle suggestioni, non esistono dati certi che possano suffragare quest’ipotesi e in molti, a dire il vero, la considerano inverosimile. Mojtaba candidato a Guida suprema susciterebbe non solo malumore, ma scandalo a Qom, argomentano gli esperti, sottolineando che l’elevazione del figlio di Khamenei implicherebbe, tra le altre cose, la restaurazione del principio dinastico ricusato dalla Rivoluzione. Nel frattempo, quali che siano i disegni che si preparano nel beit, l’evocazione del futuro di Mojtaba agita le acque a tal punto che alcuni insider conservatori si sono convinti che le indiscrezioni vengano alimentate dagli oppositori della Repubblica islamica allo scopo di creare un clima di tensione e scetticismo attorno al tema della successione. “Non scommetterei su nessuno dei nomi che circolano al momento – ha detto al Foglio un giornalista vicino ai cosiddetti principalisti – I candidati veri si nascondono, perché chi si espone arde in fretta e si consuma”. Il che in effetti, è quello è capitato all’ayatollah Montazeri, il primo e unico delfino designato e poi sconfessato dallo stesso Khomeini.
Mohsen Araki, un religioso che siede nell’Assemblea degli esperti, ha confermato l’esistenza di una lista segreta di candidati per il “dopo Khamenei” in un’intervista all’agenzia Fars. Secondo Araki, la lista viene regolarmente aggiornata da una commissione ristretta, altrettanto segreta, formata da tre personalità d’altissimo profilo. L’Assemblea degli esperti è l’organo formalmente deputato a eleggere la Guida suprema, ma nelle deliberazioni dell’89 sulla scelta di Khamenei influirono pesantemente le considerazioni “informali” del solito Rasfanjani, ed è probabile che nel caso del nuovo leader, le istituzioni di regime saranno fortemente condizionate dall’approvazione dei pasdaran.
Ma dentro un sistema in cui ogni centro di potere – da Qom alla brigata al Quds, dal beit, al Consiglio dei guardiani – ha il suo cavallo e le sue mire, la figura che più di qualsiasi altra aspira a modellare il dopo è proprio Khamenei. In un manifesto del 2019, intitolato “La seconda fase della Rivoluzione”, ha auspicato l’ascesa di una leadership “energica, giovane e devota”, ma più delle sue parole, che da trent’anni a questa parte sono sorprendente coerenti con il primo verbo rivoluzionario, nel caso di Khamenei parla la biografia che è quella di una generazione che è diventata adulta attraversando la stagione guerrigliera dei movimenti, della prigione e della rivolta e che, per molti versi, lì è rimasta. “Noi abbiamo bisogno dell’inimicizia con gli Stati Uniti”, ha replicato secco a Mohammed Khatami che nei primi anni Duemila propagandava come un mantra l’idea del “dialogo tra le civiltà”. E la sua risolutezza non era, allora come adesso, solo una questione di calcolo politico. È dal 1989 che Khamenei non varca i confini nazionali e non si tratta di un dettaglio da poco in un paese in cui l’età media è di 32 anni e dove chi non può oltrepassare fisicamente le barriere evade costantemente sui vituperati social network. Mentre il mondo cambia e cambia anche l’Iran (sono cambiati per molti versi persino i pasdaran), Khamenei se ne sta barricato nella fortezza e quando s’affaccia gli riesce solo di ripetere come un disco rotto gli stessi slogan degli anni Settanta.
Non sa come cambiare e nemmeno lo desidera, perché è convinto che il mondo pulluli di minacce e che qualsiasi cedimento possa nuocere fatalmente alla sua eivoluzione. Ma a dispetto della potenza di fuoco del beit, quella di Khamenei è una sfida da far tremare i polsi. Perché è difficile mettere insieme la fatwa a Salman Rushdie e il cilindro di Ciro, l’oscurantismo khomeinista e il cosmopolitismo persiano; perché alla domanda “ma cheguneh ma shodim” (come siamo diventati noi), generazioni di storici hanno risposto: grazie alla ricchezza dei nostri incontri. E basta leggere lo Shahnameh di Ferdowsi in cui le madri degli eroi sono straniere piene d’acume e di grazia, basta osservare i fregi di Persepolis con i persiani che dopo aver conquistato i Medi hanno cominciato ad acconciarsi i capelli come loro, basta guardare le mise delle mogli del sovrano Qajar, Nasreddin, ritratte in tutù dopo un viaggio a Parigi, basta leggere i carteggi dei missionari presbiteriani a Tabriz, basta prestare attenzione a quello che postano i ragazzi di Teheran su TikTok per capire quanto sia difficile da estirpare l’esterofilia degli iraniani.
“Se il sovrano è tirannico e le sue punizioni sono severe, il popolo diventa pauroso e depresso e cerca di difendersi mentendo (…). Cambierà la percezione, si corromperà il carattere. Il popolo congiurerà per ucciderlo”, scrive Ibn Khaldun. Non è un buon viatico per Khamenei che diffida delle mollezze della seconda generazione e ancor più di quelle della terza. Non è un buon viatico in assoluto la paura, ma c’è pure qualcosa di ridicolo e familiare in quella di Khamenei. A molti iraniani ricorda da vicino la figura tragicomica di Da’i Jan Napoleon, lo “Zio Napoleone” del giornalista e scrittore satirico Iraj Pezeshkzad. Al centro del romanzo, un bestseller del 1973, si staglia il personaggio di un notabile insoddisfatto che tiranneggia i familiari e vive sventando inesistenti cospirazioni inglesi. Proprio come Zio Napoleone, Khamenei indovina trame ovunque, nel suo caso del “piccolo satana sionista” e del “grande satana americano”. Come Zio Napoleone, Khamenei vive nella paura e ci fa vivere gli altri. “L’Iran è diventato come l’Hotel California”, scherza spesso nei suoi monologhi il comico iraniano-americano Maz Jobrani, perché oscillare tra la commedia e la tragedia, oscillare senza cadere è probabilmente l’unico modo per sopravvivere all’Iran di Khamenei.