Cosmopolitics
Lina Khan e il martello bipartisan d'America sull'Antitrust
L'Amministrazione Biden ha scelto una giovane esperta di concorrenza per guidare l'agenzia contro i monopoli: il suo saggio su Amazon ha cambiato il dibattito e l'approccio, soprattutto rispetto ai Big Tech. Ma c'è una convergenza (rara di questi tempi) tra destra e sinistra, come dimostrano i libri di due senatori
C’è chi dice che la regolamentazione di Big Tech, la necessità di ridimensionare il suo potere e la sua influenza che tocca gangli importanti della convivenza democratica, sia uno dei pochi temi su cui la polarizzazione scompare
Lina Khan ha in mano un martello e attorno a sé vede soltanto chiodi ed è per questo che molti temono la nuova guida dell’Antitrust scelta dall’Amministrazione americana di Joe Biden. Trentadue anni, nata a Londra da genitori pachistani e arrivata a New York a undici anni, la Khan combatte contro lo strapotere delle grandi aziende da sempre, e i chiodi sono dappertutto. La sua prima battaglia, quando era al liceo, fu contro Starbucks di fronte alla scuola che impediva a molti ragazzi di sedersi ai suoi tavolini perché erano troppo rumorosi: la Khan, ha raccontato il Financial Times, organizzò manifestazioni, denunciò la cosa in un articolo sul giornale del liceo che fu ripreso dal New York Times. Nel 2013, quando aveva 24 anni, si ritrovò dentro a un supermercato a rimuginare davanti agli scaffali delle caramelle: era Halloween, e la Khan si accorse che di fatto i prodotti sul mercato erano tanti ma di pochissime aziende: ne scrisse sul Time: “Se vogliamo un mercato più in salute e più diversificato, e anche più varietà nei nostri cestini di Halloween, dobbiamo dare nuova vita alle leggi contro l’antitrust”.
Da allora, quest’avvocato dal curriculum stellare (e una prima tesi su Hannah Arendt), non si è occupata d’altro e nel 2017 ha scritto sulla rivista della scuola di legge di Yale l’articolo che l’ha resa molto famosa: “Amazon’s Antitrust Paradox”, in cui sosteneva che l’attenzione esclusiva ai prezzi bassi per i consumatori impediva di vedere gli altri importanti e devastanti effetti collaterali delle concentrazioni di mercato. Molti la criticarono (compresi parecchi clintoniani e obamiani), tanti la incensarono: oggi Biden l’ha scelta come presidente della Federal Trade Commission, l’autorità che si occupa di antitrust e di protezione dei consumatori, e la decisione ha fatto scalpore nel mondo del business e delle Big Tech. La Khan è una radicale, si prospettano tempi complicati. In realtà, la Khan rappresenta la sintesi di un pensiero sempre più prevalente in America, sia a destra sia a sinistra. Anzi, c’è chi dice che la regolamentazione di Big Tech, la necessità di ridimensionare il suo potere e la sua influenza che tocca gangli importanti della convivenza democratica, sia uno dei pochi temi su cui la polarizzazione scompare. A dimostrazione di questa tesi ci sono due libri, o meglio due autori, che pur avendo un posizionamento politico opposto, hanno scritto due saggi che propongono la stessa cosa: contenere Big Tech.
I due autori sono anche due senatori, Josh Hawley e Amy Klobuchar, lui repubblicano del Missouri, lei democratica del Minnesota. Hawley è stato uno degli otto senatori che, all’indomani dell’assalto al Campidoglio del 6 gennaio, hanno comunque contestato l’elezione di Joe Biden. Figlio di un banchiere, Hawley ha frequentato Stanford e poi Yale, ha lavorato alla Corte suprema con John Roberts, il presidente della Corte, è energico e parla bene, fa da ponte fra i trumpiani vecchio stile e quelli nuovi che raccolgono l’offerta politica di Donald Trump ma non Trump stesso, e ha scritto un libro che si intitola “The Tyranny of Big Tech” in cui dice che la distorsione del mercato di queste aziende è una delle cause principali della diseguaglianza economica.
Amy Klobuchar è stata candidata alle primarie democratiche dello scorso anno, quando si è ritirata ha dato subito il suo sostegno a Biden ed è stata anche nella rosa delle possibili vicepresidenti (si tolse da sola dalla lista quando scoppiarono le proteste per l’uccisione di George Floyd: lei era stata procuratore di Minneapolis e la comunità afroamericana non la amava): moderata, al Senato da 15 anni, la Klobuchar ha scritto “Antitrust”, nel quale spiega che anche il concetto stesso di “antitrust” è obsoleto, vorrebbe parlare di politiche per la concorrenza, di monopoli o semplicemente di “bigness”, perché “Big” è il termine che ormai viene associato più direttamente alla concentrazione di potere. La senatrice ammette che il Congresso è riuscito in questi anni a combinare poco: lei stessa propose una legge, nel 2017, per forzare compagnie come Facebook a rivelare quali fossero le aziende che investivano nelle ads politiche, come avviene per i media tradizionali, ma non passò. Però è da qui, dall’azione legislativa, che la Klobuchar, proprio come Hawley, vuole ripartire, recuperando il piglio che fu di Teddy Roosevelt e aggiornandolo alle esigenze di oggi che, quando si parla di Big Tech, oltrepassano i confini del potere economico-politico.
Nel suo saggio sul paradosso di Amazon, la Khan concludeva: “Per rivedere le leggi antitrust e le politiche di concorrenza dei mercati digitali dobbiamo porci due domande: il nostro framework legale cattura la realtà di come le aziende dominanti acquistano ed esercitano il loro potere nell’economia di internet? Secondo: quali gradi e forme del potere devono essere indicati dalla legge come delle minacce?”. Questi erano i suoi chiodi, ora la Khan ha il martello, bipartisan oltretutto, quindi potente.