Noi e gli inglesi
Il filtro Brexit è deformante
Quando si parla del Regno Unito, che sia lo stadio di Wembley o "The Crown" scatta subito l'istinto della punizione. Ma quando si parla di cultura, sport e società, non c'entrano i protocolli, i dazi, le file di camion o la pesca dei merluzzi. C'entra l'ispirazione, e la convergenza
La grande differenza tra il Commonwealth e l’Ue è questa: il primo ha creato un legame culturale inscindibile (la lingua in comune e la monarchia ovviamente aiutano), la seconda su questo fronte è stata da sempre molto più debole. Per questo applichiamo la Brexit come unico filtro per interpretare e rappresentare il Regno sul continente europeo
La finale degli Europei è diventata un caso per via della nuova ondata di Covid che, nella sua variante Delta, sta frantumando le certezze post pandemiche del Regno Unito: sarà pericoloso andare a Wembley? Probabilmente sì, e sarà la nostra Nazionale la prima a correre il rischio, sabato, cioè subito. Ma oltre alla paura del contagio, la questione Wembley raccoglie molte altre sfumature che hanno a che fare più con lo status attuale del Regno Unito che con l’epidemia, e cioè: Londra non è più in Europa, che senso ha farci la finale degli Europei?
Il calcio come tutte le manifestazioni sportive e anche culturali viene spesso letto attraverso la lente della geopolitica, ancor più se la discussione riguarda un paese divorzista come il Regno, eccezione storica difficile da digerire: non ci sarà mai perdono per quest’abbandono; riemergerà a ogni passo, a ogni impiccio, l’istinto di punire i traditori. Lo abbiamo visto durante il negoziato della Brexit (oggi sono cinque anni dal referendum), lo vediamo anche oggi che vanno sistemati quelli che tutti chiamano i dettagli e che invece sono sostanza purissima, ché se non sai come regolare l’unico confine terrestre tra il Regno e l’Unione europea dopo che ne discuti da quattro anni, vuol dire che c’è qualcosa di estremamente rilevante ancora irrisolto. Soltanto che qui non stiamo parlando di protocolli, di dazi, di file di camion, di carichi interi da buttare perché marci, di migrazioni di merluzzi o di formulari da compilare: questo è il calcio, e il Regno Unito non sarà più nell’Unione europea, ma è comunque in Europa. Quando si esce dalle relazioni economiche e politiche e ci si avventura, ci si confronta, sul terreno della cultura, dello sport, delle ispirazioni e delle direzioni, la Brexit, o meglio il modo in cui viviamo la Brexit, mostra la sua faccia più triste.
Wembley è Europa, è calcio europeo nella sua versione più eclatante ed esaltante, è storia comune, indipendentemente dal fatto che poi si faccia parte dello stesso consesso geopolitico. La grande differenza tra il Commonwealth e l’Unione europea è proprio questa: il primo ha creato un legame culturale inscindibile (la lingua in comune ovviamente aiuta), pur se a tenerlo insieme formalmente è una monarchia che buona parte dei paesi membri vorrebbe abolire. La seconda su questo fronte è stata da sempre molto più debole, ed è il motivo per cui noi oggi applichiamo la Brexit come unico filtro per interpretare e rappresentare il Regno sul continente europeo. E’ anche il motivo per cui, come ha raccontato il Guardian, l’Ue vuole ridurre la presenza culturale britannica “sproporzionata” sulle reti televisive del continente, perché è una minaccia alla sua identità. “Pure se il Regno Unito è al di fuori dell’Ue, i suoi contenuti audiovisivi sono comunque definiti ‘europei’” e questo ci espone a troppo “The Crown” o a troppo “Downton Abbey”. E’ una questione di diritti e di quattrini, certo, ma tagliare il ponte culturale che tiene legate Europa e Gran Bretagna (e che da lì poi si proietta oltre Atlantico: i flussi di idee, ispirazioni, motivetti e ossessioni sono bidirezionali) è il modo migliore per far diventare la Brexit non soltanto il flagello economico che è, ma anche un disastro in quegli ambiti in cui i confini non ci sono, ci sono le convergenze e le convivenze, e ci fanno bene. L’identità europea, concetto fragile che chiamiamo European way of life ma che difficilmente sappiamo definire, non può temere una sproporzionata invasione britannica, anzi semmai dovrebbe augurarsela: non c’è bisogno di scomodare i Beatles o Jane Austen (o Londra capitale globale del calcio) per sapere che come c’era vita comune prima dell’ingresso del Regno nell’Ue, ci sarà anche dopo la Brexit.
L'editoriale dell'elefantino