Con Rumsfeld è morto un gigante della guerra e della pace
L'ex segretario alla Difesa è stato un testimone, senza pretese pompose e parole ampollose, dell’essenza della libertà
Donald Rumsfeld (1932-2021) era un duro di Chicago e una intelligenza splendida, uno sguardo che al solo incontrarlo ti bloccava nella paura, nella palese inferiorità. E’ merito suo di uomo di stato, in associazione con il sulfureo Dick Cheney e con il volontarista George W. Bush, se i talebani sono stati per vent’anni lontani dal potere, se il 30 dicembre del 2006 Saddam Hussein è stato impiccato a Camp Justice, se le ceneri di Bin Laden sono state sparse in mare dieci anni dopo il bombardamento islamista di New York e di Washington. La presidenza Bush Jr. finì due anni prima della scadenza naturale, tra il novembre e il dicembre del 2006, con le dimissioni di Rumsfeld dall’incarico di segretario alla Difesa. Rumsfeld aveva capito che l’11 settembre del 2001 era la data spartiacque per fare una guerra imperiale, vincerla con mezzi e strategie preventive e trasformare il mondo come avvenne nella Seconda guerra mondiale. Era di una semplicità meravigliosa, come solo certi talenti americani sanno essere: per lui la differenza era tutta in una foto notturna di Seul illuminata e di Pyongyang tutta nera: luce e libertà, buio e oppressione.
Cadde a metà del guado sotto i colpi del movimento pacifista, di un’opinione internazionale e americana inidonea al compito da lui e dagli altri due assegnato al paese guida del mondo con il “Progetto per il nuovo secolo americano”, l’associazione di neoconservatori di cui fu tra i fondatori. Il generale David Petraeus in due anni riuscì a domare l’opposizione armata delle tribù saddamite superstiti e di altri nemici con una raffinata strategia di controinsurrezione che per qualche ragione al duro di Chicago era mancata. In morti militari e civili la determinazione a dare battaglia di Rumsfeld fece pagare un prezzo alto all’America e al mondo, all’Afghanistan e all’Iraq, ma con le torture del carcere iracheno di Abu Ghraib lui non c’entrava né tanto né poco: ne furono responsabili l’impazzimento morboso e corrotto, perfino la vanità di un pugno di secondini infedeli della Pennsylvania, processati e condannati da tribunali militari negli Stati Uniti.
La durezza di Rumsfeld era una categoria della guerra, della politica, dello stato di necessità, della ragion di stato in una lotta disperante e dolorosa per dare una prospettiva di libertà e di pace al mondo. Quando nella polemica grottesca sulle armi di distruzione di massa di Saddam, che la Cia e gli altri servizi occidentali avrebbero potuto far ritrovare senza sforzo, e invece non c’erano più, Rumsfeld disse che esistono rischi ignoti e che non si sa di non conoscere, parlando degli unknown unknowns, e definì l’essenza della politica di tutti i tempi in una formula che, da lui applicata all’emergenza bellica, resterà nella storia dell’azione e del pensiero. Quando ai giornalisti collettivi rispondeva assumendosi le conseguenze dei suoi atti, con frasi come “le bombe servono per uccidere i nemici”, non faceva della pedagogia spicciola, cercava di aprire le loro teste come le bombe aprivano quelle degli studenti di teologia armati che erano anche studenti armati di teologia, ultimi nella serie di eroi nazionali di una guerra coloniale infinita che dura da due secoli e mezzo a loro vantaggio e a svantaggio del popolo cui impongono la loro dominazione.
I costi di Rumsfeld sono nulla in confronto a quello che seguì la ritirata strategica dell’America dalle sue responsabilità, con la divisione dell’occidente e la fuga generale in Siria e altrove da ogni responsabilità politica, leading from behind, come voleva la velleitaria politica estera e di sicurezza di Barack Obama, che tra l’altro generò lo Stato islamico. Con lui è morto un gigante della guerra e della pace e un testimone, senza pretese pompose e parole ampollose, dell’essenza della libertà.