Essere una donna a Teheran
Da piccola Habibe Jafarian voleva “sposare un libro”, oggi la sua voce limpida è la più potente delle scrittrici della sua generazione. Ancorata in Iran a fare “il doppio turno”: il suo e quello di un uomo
La madre sognava che diventasse un dottore o almeno una hostess. Al padre sarebbe bastato saperla al sicuro. “Ho paura per te”, le ha ripetuto per anni alla fine di ogni telefonata. Il fratello, invece, ha sempre pensato che avrebbe scritto un romanzo. E, in effetti, nei torridi pomeriggi sognanti trascorsi insieme a Somerset Maugham o in autobus sulla strada tra Mashad e Teheran, china su una copia di “Rebecca”, il giorno del funerale dell’ayatollah Khomeini, lo ha desiderato anche lei. Senonché, nel suo caso, il caso di una donna che da bambina non chiedeva che di “sposare un libro”, la realtà si è rivelata più intensa e travolgente della finzione ed è così che Habibe Jafarian è diventata una scrittrice di storie “vere”.
In Iran le storie abbondano come altrove, anzi, anche più che altrove, in fondo è del medio oriente che stiamo parlando e il problema qui non sono mai le storie, ma la possibilità di raccontarle, di scrivere la verità o qualcosa che le somigli, senza oltrepassare le linee rosse del regime e senza abdicare alla propria integrità. Habibe lo ha fatto, ha visto e ha scritto furiosamente: articoli e biografie, storie di amici che emigrano in America e in Europa, storie di amori sfortunati e di mogli gelose che irrompono nelle redazioni, storie di mullah che annusano il disamore ma non riescono a cambiare, storie di genitori che invecchiano e sputano sangue, storie di grafiche stanche di coprire le caviglie e il décolleté “inappropriato” di Nicole Kidman, storie di morte e storie di guerra, di padri nobili che fingono di saper fare tutto e di figli che si sentono inadeguati, storie di mariti megalomani e di mogli preveggenti, storie scritte in prima persona in cui il dolore di chi resta ha pari dignità rispetto a quello di che parte. E in tutto questo raccontare, la sua voce limpida e ironica è diventata la più potente, la più riconoscibile, la più evocativa della sua generazione.
“Che tipo di giornalista sei?”, le ha chiesto un collega sconsolato un giorno in cui Leila Hatami, l’attrice del film premio Oscar “Una separazione”, s’era offerta di contattarla su Telegram per fissare l’orario di un’intervista. Perché Habibe non ha un account Instagram e non è mai stata tentata dall’idea di possederne uno. “Leila Hatami ti voleva lasciare un messaggio… E tu avresti potuto rivenderti l’audio al mercato nero – ha sospirato un vicino di scrivania – Santo cielo Habibe, quando ti deciderai a entrare nel mondo?”. Ma quando le muovono osservazioni di questo genere, lei alza e riabbassa le spalle, le dinamiche dei social network la lasciano indifferente, di mondo, a suo parere, ce n’è già abbastanza oltre gli schermi di un computer o di un telefono. Quando, una mattina, Elmira, la gossip girl dell’ufficio, le va incontro brandendo il cellulare, squittendo: “Guarda!”, Habibe sente che il suo viso s’avvia a deformarsi in una smorfia che i colleghi sono soliti chiamare “la faccia da colonnello con la luna di traverso”. Tuttavia Elmira non è tipo da cogliere simili sottigliezze. “Guarda cosa ho trovato!”, insiste per la terza volta, e a quel punto, invece della prevedibile galleria di gattini, gemelli e giocatori del Bayern Monaco, le compare sotto gli occhi una foto di Ingrid Bergman.
Non si tratta di uno scatto qualsiasi. È a causa di questa foto che Habibe ha alzato i tacchi e ha abbandonato una rivista. Questo accadeva nel 2004, gli anni delle montagne russe di Mohammed Khatami, quando i quotidiani aprivano e chiudevano producendo grandi speranze e delusioni altrettanto cocenti. Habibe non aveva ancora trent’anni e Reza, il suo capo, era un amico di poco più grande. Pochi anni prima se ne erano andati insieme da un altro quotidiano, perché il nuovo editore, uno zelota fanatico, pretendeva cieca obbedienza e, in seguito, quando Reza aveva coinvolto Habibe e altri colleghi in una nuova avventura in una rivista “semi-ufficiale”, l’idea era che avrebbero lavorato in un luogo in cui finalmente sarebbero stati tutti dalla stessa parte. Indipendenza e qualità, nuovi contenuti per una nuova generazione di lettori, aveva promesso Reza. Sarebbe stato difficile avere a che fare con le autorità, ma non impossibile. Insieme avrebbero creato qualcosa di inedito, un gruppo editoriale come nessun altro, in cui i giornalisti sarebbero stati i più liberi sulla piazza e in cui il direttore avrebbe sempre fatto di tutto per proteggerli. E loro di Reza si fidavano. Era un tipo sveglio, con un’intelligenza acuta e un occhio per i dettagli. S’era laureato in fisica all’Università Sharif, l’MIT di Teheran, e stava completando un altro ciclo di studi in epistemologia. Alle volte, lavorare con lui poteva essere estenuante, ma nella maggior parte dei casi la vita in quella rivista era un incanto.
Senonché, un giorno, Reza convocò Habibe nel suo ufficio. Voleva parlare di certe scelte in programma nella sezione “Nascite e Morti”, ossia quella che le era stata affidata. Una pagina in particolare lo aveva turbato. “Sono morte così tante persone famose questa settimana nella storia. Perché hai scelto proprio Ingrid Bergman? E perché questa foto?”. Habibe aveva letto una biografia della leggendaria attrice svedese ed era rimasta folgorata dalla descrizione del suo carattere forte e determinato. La incuriosiva la circostanza che il giorno della nascita, a Stoccolma, il 29 agosto del 1915, coincidesse con quello della morte, a Londra, il 29 agosto del 1982, e che, nell’intervallo di tempo tra questi due agosti, la Bergman fosse riuscita a vivere esattamente la vita che aveva voluto. La pietra della scandalo, l’immagine che segna il destino professionale di Habibe, è uno scatto in bianco e nero. Ingrid Bergman è accanto a Roberto Rossellini. Marito e moglie si sfiorano, testa contro testa. Lui tiene gli occhi chiusi, lei guarda verso il basso e sorride. I tre figli, uno più bello dell’altro, sono allacciati ai genitori, il maschio e la femmina poggiano il capo sulle gambe di Rossellini, l’altra bimba preme la guancia sui capelli della sorella, e tutti e cinque si abbandonano alla reciproca vicinanza nella vertigine di un momento che irradia una felicità sfavillante.
Habibe non può rinunciarci, ha cercato l’immagine giusta per giorni e giorni e in questa c’è tutta la tenerezza, tutto la grazia di un istante eterno e fugace allo stesso tempo. Bergman e Rossellini si lasceranno, altri scatti riassortiranno i quadri di famiglia, ma nulla può intaccare la verità di questo momento. Reza è esasperato. La foto è splendida, non si discute, ma non è questo il punto. “Perché ti ostini a fare tutte queste storie? Scegli una foto più piccola. Oppure tagliala. Queste pagine – sospira – non sono per questo tipo di foto. Non abbiamo creato questo spazio per esaltare i divi di Hollywood. Non eliminarla – tenta di mediare – fai giusto in modo che non si noti così tanto”.
Ma lei scuote la testa. “Non ti rendi conto? Stiamo parlando di Ingrid Bergman, mica di un’attricetta qualsiasi”. Reza si aggiusta gli occhiali e intanto gli si ghiaccia la voce: “Amica mia, alla gente che supervisiona il nostro prodotto non interessano queste distinzioni. Ai loro occhi, tutte le donne di Hollywood sono una cosa e una soltanto e sappiamo entrambi cosa”. Da quel momento, tra Reza e Habibe scende un doloroso imbarazzo. Forse per via della vecchia amicizia, lui non ha il coraggio di vietarle l’uso della foto. Confida nel suo buonsenso. Ma il buonsenso spinge Habibe a pubblicare l’immagine nella stessa posizione e con lo stesso rilievo con cui l’ha immaginata fin dal principio. Di lì in avanti, i contatti tra i due si diradano e l’amicizia si sfilaccia. Reza non concepisce l’ostinazione di Habibe e Habibe lo conosce abbastanza bene da sapere che non la perdonerà. La vita di Reza è incardinata dentro un codice di princìpi inviolabili. E anche la vita di Habibe lo è. Senonché il codice che osservano non è lo stesso.
A dispetto della censura e delle restrizioni Reza crede davvero di poter creare il miglior gruppo editoriale iraniano (e per alcuni anni ci va abbastanza vicino) e non gli importa se di tanto in tanto si sporca le suole delle scarpe strusciando sopra le viscere del sistema. Si tratta di un male necessario, un compromesso che vale il sacrificio di una foto. Per Habibe, invece, la verità è l’unica cosa che conta, ogni storia è un mondo intero che non può essere sacrificato e nemmeno sminuito, o lo racconti fino in fondo oppure non vale la pena di cominciare.
Sembra semplice a dirsi, ma per vivere a questo modo, per andare avanti a costruire storie e mondi in Iran, bisognerebbe essere un po’ come Ingrid Bergman o come la vede Habibe. “Ogni volta che mia madre mi raccontava dei suoi trentacinque anni di matrimonio con mio padre, finiva sempre con lo stesso refrain: sono sempre stata una donna fino in fondo e pure un uomo”, ha scritto in un formidabile racconto intitolato “Come essere una donna a Teheran”. Quello che intende è che anche una come sua madre, una donna religiosa senza grilli per la stessa, una che indossa il chador e non si lamenta è consapevole di doversi impegnare ogni giorno fino allo stremo delle forze per farsi valere. Non può abbassare la guardia, illudersi che qualcosa arrivi in automatico, deve “fare il doppio turno”, essere fino in fondo una donna e pure un uomo, perché funziona così in un paese in cui la politica, la religione e il fato si tengono a braccetto e forse – dice Habibe – non esiste un altro luogo sulla faccia della terra come l’Iran, un luogo in cui le donne sono nella medesima misura pari agli uomini e altrettanto diseguali.
Habibe è di Mashad, la città cresciuta attorno al sontuoso santuario dell’Imam Reza, ma la sua è una famiglia operaia che abita nel quartiere “sbagliato” e Habibe sogna Teheran fin da quando è minuscola. A quindici anni si impossessa di una mappa e la srotola sul tappeto, perché è la capitale la città in cui si vuole orientare, e anni dopo quando arriverà a Teheran per frequentare l’università, Habibe riconoscerà i musei e i palazzi dei Qajar, gli sfondi delle piazze e i cavalcavia nelle sequenze dei film. E tutto le apparterrà. Il traffico, i parchi, il caos vibrante e soprattutto la sensazione di avere una possibilità. Si trova un lavoro in un giornale senza arte né parte. Guadagna poco, ma abbastanza per continuare a esplorare la città. Ogni volta che si parlano il padre le dice di stare attenta, di non andare in giro da sola, e ogni volta Habibe finge di non sentire. “La paura, che è il peggiore difetto in un uomo, è la qualità migliore in una donna”, sospira lui, citando un detto attribuito all’Imam Ali. Perché Habibe non può non essere Habibe, e lui non può non temere per lei. “Sono io ad avere paura per te”, le dice e non è l’unico a farlo. Glielo ripetono i direttori dei giornali e anche Shahrzad, l’amica che è andata a Parigi per studiare antropologia e non è più tornata. Sono sedute in un caffè. Su una colonna, sopra di loro, un cartello recita: “Per la vostra tranquillità e la nostra, controllate le vostre emozioni, non fumate (vi fa male in ogni caso) e, per favore, fate in modo che le vostre teste siano coperte in modo appropriato”.
Habibe ride buttando fuori il fumo di una sigaretta. “Cosa ci trovi di divertente? – salta su Shahrzad – Davvero non riesco a capire come tu faccia a rimanere in questo paese”. “A dire il vero sono in partenza - la corregge - In partenza per il Libano”. Ha accettato di scrivere una biografia di Musa Sadr, il misterioso ispiratore di Hezbollah di cui non si hanno notizie dal giorno dell’ultimo avvistamento in Libia, nel 1978. Si spingerà fino al confine con Israele, intervisterà la moglie, i figli, i fratelli. Non è facile trovare la giusta misura quando si parla con chi resta, ha spiegato Habibe in un racconto intitolato “A proposito di uomini morti e combattenti”. “Alcuni piangono facilmente, altri non non lo fanno affatto, alcuni restano in silenzio, come fossero in trance, e poi all’improvviso esplodono come melograni troppo maturi”.
“Scrivi biografie perché hai paura della morte”, le ha detto una volta la sua terapista. E può darsi che sia vero, ma nelle pagine di Habibe più che la morte a colpire è soprattutto il tormento, la solitudine di una moglie o il rancore di un figlio, come quello di Musa Sadr, un bambino che è diventato un uomo, e resta comunque un figlio, un figlio a cui il mondo è capace solo di chiedere cosa farà per un padre che non c’è più. “Habibe, non hai paura? Non ce l’hai vero? Ma io sì. Io ho paura per te”, le ripete Shahrzad e ascoltandola Habibe fatica a trattenere il nervosismo che l’assale quando gli amici che si rifanno una vita all’estero tornano in Iran ad ammonirla. Certo che Habibe ha paura. Ha avuto paura quando il fratello le ha intimato di tornare a Mashad; ha avuto paura all’aeroporto, quando è stata fermata da una donna dell’unità investigativa; ha avuto paura quando il suo nome è finito in una lista di “mal velate” che non sarebbero potute tornare in ufficio; ha avuto paura nel 2009 davanti a un miliziano che manganellava i manifestanti nella piazza Haft-e-Tir; e ha avuto ancora più paura quando quello stesso miliziano ha abbaiato: “Cosa diavolo fissi?”.
Habibe ha sempre avuto paura, eppure è andata avanti. Perché ha scelto di non scappare, di raccontare l’Iran da Teheran, e non da Londra o da Washington. Perché ha la forza di irridere le “gentili offerte” di diventare l’amante di qualcuno, la moglie temporanea di un altro e la seconda moglie di un altro ancora. E ha scelto di conoscere intimamente la città e i suoi disastri, di non distogliere lo sguardo davanti ai volti disfatti nei vicoli malfamati. Perché come ha detto Kiarostami: “Tutto quello che ho, di buono e di cattivo, me lo ha dato questo posto”. Perché questa è un storia importante, una storia che vale la pena di essere raccontata. Perché come sua madre, Habibe Jafarian è una vera donna e anche un vero uomo e perché se se ne vanno quelle come lei, in Iran non cambierà mai nulla.