La repressione turca
Inandi è ricomparso
Le manovre di Erdogan in Kirghizistan per processare l’imprenditore gulenista
Il Kirghizistan è la più piccola e povera delle cinque repubbliche dell’Asia centrale, regione in cui la Turchia detiene un’influenza significativa, legata sia al retaggio storico e linguistico sia agli ingenti investimenti degli ultimi decenni. Il Kirghizistan è stato anche il teatro di una delle ultime operazioni di intelligence messe in piedi dal presidente turco Recep Tayyip Erdogan e realizzata dai suoi uomini.
A inizio giugno nel paese si è registrata la scomparsa di Orhani Inandi, un imprenditore molto conosciuto e con doppia cittadinanza, turca e kirghisa. I sospetti sono subito caduti sulla Turchia: Inandi è infatti il fondatore di un network di istituti di formazione che operano nell’orbita dell’organizzazione fondata e guidata dall’ex sodale di Erdogan, Fethullah Gülen. Il network è considerato da Ankara un movimento terroristico e l’ispiratore del tentato golpe del luglio del 2016. Nel corso degli anni non sono mancate richieste di estradizione nei confronti di Inandi da parte della Turchia, mai approvate dalle autorità del Kirghizistan. Secondo alcune segnalazioni, l’imprenditore sarebbe stato portato nell’ambasciata turca di Bishkek, la capitale del Kirghizistan, dove avrebbe subito pressioni e torture per rinunciare alla cittadinanza kirghisa, per facilitare a livello formale il suo trasferimento in Turchia. Dopo un mese di proteste nella piccola Repubblica post-sovietica e in varie capitali, favorite anche dal grande apprezzamento degli istituti di formazione fondati da Inandi, c’è stata una svolta. Inandi è stato fatto riapparire in Turchia, dove sarà processato e incarcerato. Erdogan si è subito felicitato per la cattura, nonostante pochi giorni dopo la scomparsa dell’imprenditore e durante un incontro con il presidente del Kirghizistan, il leader turco avesse addirittura negato di conoscerne l’attività.
Il rapimento di Inandi ha avuto il merito di far allineare alcune importanti voci istituzionali a quella della piazza: a fine giugno il capo della delegazione dell’Asia centrale del Parlamento europeo, il deputato italiano Fulvio Martusciello, e il membro polacco del Parlamento europeo, Roza Thun, avevano per esempio rilasciato una dichiarazione congiunta, chiedendo il rilascio dell’imprenditore. Erdogan sembra però sempre meno incline ad ascoltare le critiche internazionali. Il caso Inandi, preceduto dal rimpatrio coatto dal Kenya di uno dei nipoti di Fethullah Gülen, è infatti solamente l’ultimo di una lunga serie di sparizioni orchestrate dalle autorità turche. Stando a quanto riportato da Freedom House, la Turchia negli ultimi sei anni ha compiuto più rimpatri forzati – veri rapimenti – di dissidenti o presunti tali di ogni altro paese nel mondo. Lo stesso presidente, annunciando la cattura di Inandi, ha dichiarato che circa 100 individui con legami (più o meno chiari) con il movimento gulenista sono stati riportati in Turchia negli ultimi anni. Un numero su tutti esemplifica la repressione orchestrata da Erdogan: dal tentato golpe del 2016, più di 250mila persone sono state condannate per accuse di terrorismo in Turchia.
Tornando a Orhan Inandi, il suo destino è stato deciso sia dalle mire repressive di Erdogan sia dalla miseria del suo paese d’adozione. In passato, le autorità del Kirghizistan, a differenza di altri vicini regionali, avevano avuto la forza di opporsi alle richieste turche. Ma in questo caso, tanto più che il trasferimento è avvenuto probabilmente con il via libera kirghiso, alle proteste formali di facciata difficilmente seguiranno azioni concrete. Troppo grande è infatti il peso economico della Turchia rispetto al Kirghizistan e troppo acute la crisi e la fame di investimenti di quest’ultimo.