367 libri contro Facebook
“An Ugly Truth” è l'ultimo di tanti saggi che raccontano le non-riforme di Zuckerberg
Il libro di Sheera Frenkel e Cecilia Kang è utile per capire come dopo ogni rimostranza nei confronti del social network di Menlo Park, nulla sia stato fatto per porvi rimedio
L’ultimo di 367 libri scritti per raccontare le malefatte di Facebook è uscito martedì e si chiama “An Ugly Truth”. La verità poco carina da scoprire leggendolo non è tanto che Facebook sia un giocattolo “finalizzato a massimizzare il profitto in qualsiasi circostanza e a qualsiasi latitudine”, dalle campagne presidenziali negli Stati Uniti al caos in Myanmar, a prescindere dalle condizioni e dal contesto – perché questo ce lo potevamo aspettare. La cosa interessante è il modo in cui viene approfondita l’incompatibilità, nei fatti, tra la linea tenuta pubblicamente dall’azienda di Menlo Park (soprattutto quando incappa in qualche scandalo) e il modo in cui funziona l’algoritmo che quei profitti garantisce.
Non basta “mettere in contatto le persone” in giro per il mondo per generare dividendi, bisogna studiarle, targettizzarle, conoscere ciò che le esaspera per poi farle arrabbiare proponendo contenuti polarizzati, scatenare reazioni emotive capaci di tenerle incollate allo schermo il più a lungo possibile, per accumulare più informazioni su di loro, far vedere più contenuti sponsorizzati, far sì che producano a loro volta contenuti estremi e aggressivi per poi premiarle con i cuoricini, i pollicioni e l’engagement quando avviene. Se il funzionamento dell’algoritmo – il “cuore pulsante” di Facebook – non si può mettere in discussione, come possiamo fidarci delle continue promesse di riforma che arrivano dalla società?
La strategia di Zuckerberg è correre ai ripari solo quando necessario, presentarsi al Congresso con lo sguardo basso e il tono dispiaciuto, ogni tanto avanzare qualche mossa esemplare circoscritta a un evento specifico per sedersi dalla parte giusta (secondo il sentiment social o lo spirito dei tempi) della storia, almeno fino al prossimo disastro. La quarta di copertina è impregnata delle lacrime di coccodrillo del fondatore, ci sono tutte le scuse, i “mi dispiace”, i “dobbiamo lavorare meglio”, i “non succederà più” a cui non sono seguiti fatti.
Come funzioni l’algoritmo è cosa nota da anni. Ci sono i libri e le pubblicazioni scientifiche, c’è l’inchiesta pubblicata due giorni fa dal Washington Post e quella uscita un anno fa sul Wall Street Journal, secondo cui i dirigenti di Facebook hanno cestinano una ricerca interna che provava come la piattaforma – nonostante dichiarazioni e promesse – stesse ulteriormente aumentando la polarizzazione mentre si rifiutava di apportare le modifiche suggerite dai consulenti per renderla meno divisiva. C’è il documentario “Social dilemma” e c’è la politica, come le osservazioni e le domande particolarmente centrate fatte in proposito dalla senatrice Amy Klobuchar durante l’ultima audizione dei ceo di Facebook, Google e Twitter. Anche se già conosciamo la questione, “An Ugly Truth” è utile per scendere nei particolari: a conoscere i protagonisti, le riunioni andate male, i ragionamenti e gli errori specifici. A capire meglio come nulla, nonostante tutto, sia stato fatto in proposito.
Sarah Frier sul New York Times ha riassunto benissimo la sensazione: “‘An Ugly Truth’ dà quel tipo di soddisfazione che provi quando assumi un investigatore privato per pedinare il partner che ti tradisce: conferma i tuoi peggiori sospetti e poi ti dà tutte le date e i dettagli”. Gli esempi e le prove del tradimento, per argomentare le tue accuse nel momento della resa dei conti. Le autrici del libro, Sheera Frenkel e Cecilia Kang, hanno registrato più di mille ore di conversazioni e intervistato oltre quattrocento persone tra dirigenti, consulenti, investitori, dipendenti ed ex dipendenti, le loro mogli e i loro mariti, i loro compagni di classe. Ci sono le storie, gli aneddoti, le confidenze e le notizie. E poi ci sono le paranoie inconfessabili di Zuckerberg, che secondo un ex dirigente di Facebook sono tre: “Che qualcuno fosse abbastanza bravo da violare il sito, che i dipendenti diventassero oggetto di aggressioni fisiche e che il Parlamento avrebbero un giorno rotto il sistema alla base del suo social network”. Appunto, chiedetegli tutto ma non l’algoritmo.