La Siberia brucia. E nelle battaglie climatiche il Cremlino vede nuove opportunità

Micol Flammini

Il green è al centro dell'agenda di Vladimir Putin, che ha scoperto il cambiamento climatico. Ma per salvare la Jacuzia non basta

La Jacuzia, la regione più fredda della Russia, ha perso 2,5 milioni di ettari di foreste dall’inizio della stagione estiva a causa degli incendi che hanno colpito alcune zone della Siberia. E’ una situazione molto allarmante che dà la misura anche di come la situazione climatica stia cambiando e, per la seconda estate consecutiva, chi ha potuto ha lasciato la regione e chi ha voluto  è rimasto per cercare di spegnere il fuoco. Secondo il Guardian, il fumo tossico che gli incendi stanno provocando potrebbe essere uno dei peggiori eventi inquinanti degli ultimi anni. Le emissioni sono un rischio sia per chi è rimasto lì, cittadini e volontari, a portare il soccorso che le amministrazioni non locali non portano, sia per il pianeta. 

 

In un’intervista al canale Yakutia24, il governatore della regione, Aisen Nikolaev, ha detto che è colpa del riscaldamento climatico, che ha definito “l’unica causa”. L’elenco delle cause potrebbe essere molto più lungo, le persone sentite dal Guardian hanno raccontato di grandi inadempienze da parte dell’amministrazione locale. Ma il riscaldamento climatico rimane il fattore principale delle estati torride in una regione fatta per il freddo. La cura dell’ambiente e dei suoi stravolgimenti è diventata una delle nuove promesse del Cremlino, che guarda con preoccupazione a quel che accade in Siberia, non soltanto per la catastrofe ma anche perché è una zona importante a livello energetico: un pilastro dell’economia russa. Anche durante uno dei suoi ultimi discorsi alla nazione, Vladimir Putin ha promesso che il Cremlino sta mettendo a punto una rivoluzione verde e ha cercato di sensibilizzare i russi sull’argomento. L’appello del presidente voleva anche essere un modo per avvicinarsi ai giovani, la parte di popolazione  meno putiniana, ma anche un modo per dimostrare che la Russia, costretta dall’“effetto Bruxelles” o per sua volontà, ha capito di avere bisogno di un Green deal. La scorsa settimana era a Mosca John Kerry, l’inviato americano per il clima, e nella conversazione telefonica che ha avuto con Putin, i due si sono scambiati impegni reciproci sul clima. Il presidente ha detto che l’ambiente è “una delle aree in cui Russia e Stati Uniti hanno interessi comuni e approcci simili”. Putin ha detto di essere d’accordo sulla necessità di raddoppiare gli sforzi internazionali e Mosca inizierà dal controllo delle proprie emissioni. 
L’Ue è molto impegnata sui temi ambientali, ha presentato un piano ambizioso ma molto costoso per la transizione e questo ha iniziato ad agitare anche i propri partner commerciali, perché l’“effetto Bruxelles” funziona proprio così: l’Unione non impone gli standard direttamente alle altre nazioni ma per operare nel mercato europeo le aziende extra Ue finiscono per rispettarli. 

 

La Russia ha aderito all’accordo di Parigi nel 2019, è il quarto paese per emissioni di anidride carbonica e nonostante fossero tanti nella Duma i deputati contrari, Putin ha capito che non era il caso di lasciare soltanto agli altri le battaglie climatiche. E’ stato un calcolo anche politico,  un modo per cercare di alleggerire il peso delle sanzioni e soprattutto di evitare nuove tasse che potrebbero essere imposte per motivi ambientali. Il ramoscello della pace verde è anche una strada per uscire dall’isolamento, non a caso nel colloquio con Kerry ha ribadito che è un bene che Stati Uniti e Russia stiano dalla stessa parte quando si parla di cambiamento climatico. 

 

Il Cremlino è tra quei paesi che ha visto un’opportunità nelle politiche ambientali, e questa è già una piccola rivoluzione, ma il cambiamento climatico è talmente centrale nei discorsi politici che in alcuni casi si è trasformato anche in una scusa per coprire negligenze e mala amministrazione. E’ il caso della Siberia, dove le temperature provocano gli incendi, ma dove le amministrazioni locali fanno ben poco per aiutare i cittadini a fronteggiare il disastro. Uno degli eventi più citati dai commentatori russi per far capire quanto additare il riscaldamento climatico come la causa di tutti i disastri sia diventato frequente risale allo scorso anno. Nell’Artico settentrionale 20 mila tonnellate di gasolio si sono riversate nei fiumi Ambarnaya e Daldykan, hanno contaminato un’area di 350 chilometri quadrati e tinto le acque di rosso. Il liquido veniva da una cisterna della Norilsk Nickel e la società diede subito la colpa al disgelo del permafrost. In quel caso Putin, che già si era rifugiato nel bunker e compariva pochissimo in pubblico, si arrabbiò tantissimo: la Siberia è una zona strategica, quello che accade lì per il Cremlino è cruciale. La società è stata accusata di aver utilizzato il cambiamento climatico come una scusa per mascherare la sua negligenza e la mancata manutenzione della cisterna che aveva gli stessi serbatoi da oltre trent’anni. 

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  • Micol Flammini
  • Micol Flammini è giornalista del Foglio. Scrive di Europa, soprattutto orientale, di Russia, di Israele, di storie, di personaggi, qualche volta di libri, calpestando volentieri il confine tra politica internazionale e letteratura. Ha studiato tra Udine e Cracovia, tra Mosca e Varsavia e si è ritrovata a Roma, un po’ per lavoro, tanto per amore. Nel Foglio cura la rubrica EuPorn, un romanzo a puntate sull'Unione europea, scritto su carta e "a voce". E' autrice del podcast "Diventare Zelensky". In libreria con "La cortina di vetro" (Mondadori)