un foglio internazionale
Il ricordo paralizza la Germania
La resa dei conti con il passato e i suoi rapporti con il resto del mondo
"Sotto la guida di Angela Merkel, la Germania si è confrontata con il proprio passato come non aveva mai fatto prima, ed è stata ammirata e lodata per la cosiddetta Erinnerungskultur, ovvero la ‘cultura del ricordo’”. Così inizia l’articolo di Matt Karnitschnig su Politico.
Ogni lunedì, segnalazioni dalla stampa estera con punti di vista che nessun altro vi farà leggere. A cura di Giulio Meotti.
“Ma nel momento in cui l’era Merkel sta per concludersi, è chiaro che la dura resa dei conti della Germania ha avuto un’altra conseguenza profonda e inaspettata: una perdita di scopo e di direzione quasi paralizzante nei suoi rapporti con il resto del mondo. Anziché invigorire i tedeschi e dargli la forza di difendere il proprio credo ufficioso in politica estera – ‘mai più!’ – la Erinnerungskultur li ha menomati, creando una via di fuga da ogni potenziale conflitto. Chiunque ha trascorso del tempo con i tedeschi può confermare che non sono affatto restii a esprimere le proprie opinioni; ma convincerli a dimostrare il coraggio per esprimere le loro convinzioni è tutta un’altra storia.
Pensa a un qualsiasi conflitto internazionale e puoi stare sicuro che la Germania avrà assunto una posizione di comoda indifferenza. Ucraina, Russia, Cina, Iran – la sola nomina di ciascuno di questi temi farà scrollare le spalle e tremare di indecisione ogni leader tedesco. Non importa che la Germania, per via della sua grande dipendenza dalle esportazioni verso l’estero, faccia più affidamento degli altri sulle rotte commerciali e un clima globale di stabilità. Ciononostante, il compito di evitare che il mondo vada in frantumi viene affidato ad altri”.
Karnitschnig spiega che i tedeschi danno l’impressione di “essere ovunque sullo scacchiere internazionale” ma in realtà sono molto meno attivi di quello che si pensa e poco disposti a difendere l’ordine globale di cui parlano tanto. Ogni qualvolta viene messa in pericolo la stabilità globale, la Germania della Merkel se ne sta con le mani in mano e si rifugia dietro a una retorica ambigua e buonista, tutta improntata al “dialogo”, che tende a mettere in luce gli errori altrui ma mai i propri.
Secondo il giornalista, il problema della Erinnerungskultur è che il paese ha tratto le lezioni sbagliate dalla propria storia, come è evidente dall’approccio tedesco alla politica estera. Prendiamo l’esempio dei rapporti con la Russia di Putin. In occasione dell’ottantesimo anniversario dell’invasione hitleriana della Russia, la cosiddetta “Operazione Barbarossa”, i leader tedeschi hanno chiesto di essere perdonati per i gesti dei loro avi e la Merkel ha detto di “inchinarsi con umiltà” ai sopravvissuti. Mentre la cancelliera pronunciava queste parole, i suoi collaboratori tramavano assieme alla Francia per riesumare i vertici periodici dell’Ue con Putin, che erano stato cancellati dopo l’invasione illegale russa della Crimea.
La Merkel non è l’unica in Germania ad avere delle tendenze più o meno filo-russe. Negli ultimi tempi ha destato scalpore la proposta del co-leader dei Verdi, Robert Habeck, di inviare le armi all’Ucraina per difendersi dai tentativi di aggressione della Russia. Il quotidiano Süddeutsche Zeitung ha criticato le parole di Habeck accusandolo di ignorare “l’ombra” della seconda guerra mondiale, in cui molti ucraini aiutarono le truppe tedesche a invadere la Russia. Ecco il paradosso del pensiero ortodosso tedesco: la Germania non deve aiutare un paese sovrano e democratico come l’Ucraina a difendersi da una Russia autocratica ed espansionista a causa di eventi accaduti in epoca nazista, oltre settant’anni fa. “Questi episodi suggeriscono che la Germania non ha imparato dalla propria storia, ma piuttosto ne è intimorita”, scrive Karnitschnig.
Il giornalista sostiene che la stessa dinamica sia evidente nei rapporti con la Cina. La Germania parla tanto “dell’universalismo dei diritti”, denuncia il trattamento di Pechino nei confronti di Hong Kong e della minoranza degli uiguri, ma allo stesso tempo negozia accordi commerciali con la Cina usando la scusa del cambiamento climatico. Queste contraddizioni sono frutto del principio cardine della politica estera tedesca: “exports über alles”. Le esportazioni sono il fulcro della forza economica della Germania – rappresentano quasi il 50 per cento del suo pil – e dunque non sorprende più di tanto che sia questa priorità a definire la politica estera di Berlino. Secondo Karnitschnig, la Germania è essenzialmente “una grande Svizzera” che è costretta a vendere i suoi prodotti all’estero ma poi vuole essere “lasciata in pace”. Finché gli Stati Uniti continueranno a prendersi cura della sua sicurezza, la Germania avrà pochi incentivi a cambiare strada. I suoi alleati continuano a tollerare questa situazione perché temono che la potenza repressa e l’istinto dominante dei tedeschi possa riemergere da un momento all’altro.
La contraddizione tra l’Erinnerungskultur e gli interessi economici viene rappresentata dall’atteggiamento della Germania nei confronti dei territori che un tempo facevano parte del suo impero. Il presidente tedesco Steinmeier passa la vita a scusarsi per i torti del passato, ma si rifiuta di risarcire i popoli che sono stati vittime dei soprusi del suo paese. Cento anni fa l’impero tedesco ha commesso quello che viene considerato uno dei primi genocidi del ventesimo secolo nel territorio che oggi è la Namibia, in cui ha ucciso quasi 100 mila persone. Dopo anni di negoziati, lo scorso maggio la Germania ha offerto di finanziare alcuni progetti dal valore di 1.1 miliardi, che sono una percentuale infinitesimale del pil tedesco.
Inoltre, malgrado l’abbondanza di vaccini, la Germania non ha ancora inviato nemmeno una dose all’ex colonia africana, che è stata lasciata sola nella lotta contro il Covid. “L’equivalente della parola ‘scusarsi’ in tedesco – sich entschuldigen – è un verbo riflessivo, e il suo significato letterale è ‘estinguere il proprio debito’. I tedeschi non hanno bisogno di qualcuno che li assolva, lo fanno loro stessi. E’ un costrutto che si addice a un paese in cui la ‘cultura del ricordo’ sembra sempre di più un’auto illusione”.
(Traduzione di Gregorio Sorgi)
L'editoriale dell'elefantino