In America
La battaglia sull'inchiesta dell'assalto del 6 gennaio
Si sono aperti i lavori della commissione d'inchiesta sulla rivolta al Congresso. Le testimonianze di quattro agenti, l'inizio della "big lie" e lo scontro politico
Le commissioni d’inchiesta hanno sempre il gusto amaro della memoria non condivisa, della ricerca di un capro espiatorio, della volontà di mettere in chiaro responsabilità ed errori, meglio se degli altri, per poi utilizzare l’esito come un’arma politica tra le più affilate. Non si trova mai pace con le commissioni d’inchiesta, ricordate quella sull’11 settembre o quella più recente sull’uccisione dell’ambasciatore Chris Stevens a Bengasi, in Libia, nel 2012: semmai in quei dibattiti tragici si trovano argomenti per nuovi conflitti.
La commissione d’inchiesta sui fatti del 6 gennaio scorso (commissione 1/6), il più grave attacco al palazzo del Congresso americano da quando gli inglesi lo incendiarono durante la guerra del 1812, aggiunge amarezza ad amarezza perché mostra quanto sia diventato difficile convivere e prendere consapevolezza dei propri errori. E quanto sia diventato difficile persino credere ai propri occhi e alle proprie orecchie, perché c’è sempre qualcuno che urla: non vi stanno dicendo la verità, non ve la stanno raccontando tutta.
Ieri si sono aperti i lavori con la testimonianza di quattro poliziotti e con alcuni filmati che non erano ancora stati resi pubblici. Si sentono gli insulti dei rivoltosi agli agenti e i messaggi via radio delle forze di sicurezza che temono di non riuscire a fermare l’assalto. Michael Fanone ha raccontato di essere stato trascinato dalla folla lontano dai suoi colleghi, di essere stato picchiato, di essere stato torturato con il Taser che aveva in dotazione e di aver sentito qualcuno dire: uccidiamolo con la sua stessa pistola. Fanone ha avuto un infarto e una commozione cerebrale e mentre testimoniava ha sbattuto il pugno sul tavolo: è “osceno”, ha detto, cercare di sminuire la violenza di quel giorno, è osceno che a farlo siano delle persone elette che hanno una maggiore responsabilità nei confronti dei cittadini e delle istituzioni. Gli altri poliziotti, tra cui uno che è un veterano della guerra in Iraq, hanno detto che pensavano che sarebbero morti difendendo l’ingresso del Congresso, e che pareva di essere in una guerra medievale, con la folla inferocita e disposta a ogni genere di nefandezza alle porte. Solo che da difendere non c’era il fortino di qualche signorotto, ma il simbolo della democrazia americana, con dentro tutti i rappresentanti del popolo americano che quel giorno dovevano ratificare la vittoria del presidente Joe Biden alle ultime elezioni. Persone, riti e palazzi sotto assedio.
La commissione si è riunita dopo sei mesi di liti, sgarbi, dispetti e accuse. Per i repubblicani questo è l’ennesimo atto della guerra contro di loro e contro l’ex presidente Donald Trump, mentre per i democratici questo è sì l’atto dovuto e indispensabile per poter ricucire la politica americana ma anche lo strumento per denunciare quanto sia stato distruttivo il trumpismo e quanto i repubblicani siano corresponsabili di tanta distruzione. Il punto di debolezza della commissione 1/6 per i democratici è che è considerata partigiana e questo espone la speaker del Congresso, Nancy Pelosi, a molte critiche: non ha accolto nella commissione i deputati repubblicani proposti dal leader di minoranza, Kevin McCarthy, ma quelli ostili a Trump (che sono chiamati i “Pelosi republicans”). Mentre iniziavano i lavori, McCarthy ha tenuto una conferenza stampa in cui ha detto che questa commissione è stata disegnata per non portare a termine nessuna inchiesta, perché ha già scelto il colpevole e così l’America non saprà mai come è stato possibile che le forze di sicurezza non siano state in grado di difendere il Congresso. Per i repubblicani insomma la responsabilità è della sicurezza, del mancato allarme, dell’improvvisazione. Poteva succedere, se n’era parlato per settimane, com’è che il palazzo è stato colto impreparato? La memoria ha fatto un altro salto: l’atto unico e sciagurato dell’assalto è diventato un evento che doveva essere previsto.
La Pelosi non ha voluto nella commissione i repubblicani scelti da McCarthy ma ha selezionato Liz Cheney, che è stata estromessa dalla leadership del suo stesso partito perché ha votato a favore dell’impeachment di Donald Trump, e il deputato dell’Illinois Adam Kinzinger, anche lui un anti trumpiano. L’obiettivo, ha detto la Pelosi, è che l’inchiesta sia “seria”, perché serio è quel che è accaduto il 6 gennaio. Quel giorno, la folla trumpiana andò a protestare davanti al Congresso gridando quello che sarebbe diventato lo slogan del post trumpismo: le elezioni sono state rubate da Joe Biden, Trump ha diritto a riprendersi indietro quel che è suo. E’ sull’onda di questa ingiustizia, di questo sopruso inventato da Trump che è stato assaltato il Campidoglio, con tutto quello che è accaduto. Lo sapevamo allora che era una bugia, ora i libri e i resoconti pubblicati nel frattempo dicono chiaramente che la strategia dell’entourage dell’ex presidente, dopo le elezioni di novembre, è stata: diciamo che abbiamo vinto noi, finiranno per crederci.
Con questa stessa spregiudicata determinazione ora i repubblicani stanno cercando di distruggere la credibilità della commissione sul 6 gennaio perché non è stato rispettato lo spirito bipartisan delle origini, ma è chiaro da molto tempo che nessuna commissione sarebbe sembrata legittima ai repubblicani che vorrebbero archiviare i fatti del 6 gennaio come una giornata un tantino più violenta delle altre. Durante le loro testimonianze i poliziotti hanno detto che i rivoltosi, oltre agli insulti (spesso razzisti), avevano ripetuto più volte: “E’ Trump che ci ha mandati”.