Tokyo 2020
La via giapponese dello skateboard
Giovanissimi e mainstream. Così gli atleti sulla tavola a rotelle hanno rotto tutti i tabù della società nipponica
Fino a qualche settimana fa quasi nessuno sapeva che il Giappone era così forte nello skateboard. Poi sono arrivati i Mondiali a Roma e le Olimpiadi. E la tredicenne Momiji Nishiya
Nel luogo simbolo del protocollo, dell’educazione esasperata, del silenzio e dell’omologazione come regole fondamentali per la convivenza collettiva, lo skateboard non è uno sport. E’ solo un’attività rumorosa e apparentemente senza tradizione, quindi ingiustificabile, perfino censurabile. Il sumo, l’arte marziale più tradizionale del Giappone, è più rito che sport, si compone di lunghissime pause silenziose, il combattimento dei due lottatori dura pochi secondi, per il resto c’è molto riso da spargere, kami, gli dèi della tradizione shintoista, da celebrare. Lo skateboard è tutto il contrario.
Quando un paese decide di ospitare i Giochi olimpici sa che avrà l’attenzione mediatica del mondo. Quest’anno, con i Giochi olimpici di Tokyo 2020 poi rimandati all’estate 2021, per il Giappone è la prova del fuoco: deve dimostrare di essere in grado di organizzare delle Olimpiadi durante una pandemia, con i contagi da Covid che continuano ad aumentare – perfino dentro a quella che viene definita la “bolla olimpica”, tra atleti, staff e giornalisti internazionali. Il problema sanitario ha così oscurato un’altra conseguenza di queste olimpiadi nipponiche, ovvero l’emergere di una spaccatura generazionale dentro alla società giapponese che mai si era vista prima. Il paese più vecchio del mondo, che fa fatica ad aprirsi al mondo, è stato costretto a riscoprire la voce delle donne e dei ragazzini.
Le contraddizioni del Giappone sono emerse tutte già prima della cerimonia d’apertura e in questa settimana di gare. Ci sono state già diverse dimissioni conseguenti a scandali e dichiarazioni sessiste, licenziamenti legati a bullismo, maschilismo, insomma tutt’altro che un’edizione “dell’inclusività”, come dichiarava fiero lo slogan d’apertura. Ma poi è arrivato lo sport, e la contraddizione si è amplificata. Perché il debutto ufficiale dello skateboard come sport olimpico è avvenuto proprio in Giappone, dove tutti odiano gli skater tranne gli skater. Dove pure il movimento degli skater, per un lungo periodo di tempo, è stato maschile, fatto dai maschi per i maschi.
Momiji Nishiya ha cambiato tutto. E in una sola finale ha demolito quasi tutti gli stereotipi che resistono nella società contemporanea giapponese facendo quello che le riesce meglio: lo skate. La scorsa settimana è stata la prima a vincere una medaglia d’oro nella categoria street dello skateboarding, e sui giornali internazionali la notizia è stata molto commentata per il fatto che fosse anche una delle più giovani atlete ad arrivare al primo posto. Ma dietro a quella medaglia c’è molto di più. Non solo Momiji Nishiya è nata il 30 agosto del 2007, ma se si guarda all’intero podio, anche la seconda classificata Rayssa Leal, brasiliana, che di anni ne ha tredici, e la medaglia di bronzo è andata a un’altra giapponese, la sedicenne Funa Nakayama. Il giorno prima la finale della gara street dello skateboard maschile era stata vinta da un altro giapponese, Yuto Horigome, 22 anni.
Fino a poche settimane fa quasi nessuno nel mondo e in pochissimi perfino in Giappone sapevano che il paese del Sol levante era così forte nello skateboard. Qualche indizio era arrivato all’inizio di giugno da Roma, dove si sono tenuti i Mondiali che servivano anche come gara di qualificazione per Tokyo 2020. Pure in quell’occasione, allo stadio Pietrangeli del Foro Italico della Capitale, i giapponesi hanno vinto tutto (la manifestazione è stata portata a Roma anche grazie a Sabatino Aracu, ex deputato di Forza Italia che da tempo è presidente della federazione degli sport rotellistici/World Skate, e lo skatepark del Foro italico sarà a disposizione degli appassionati per tutta l’estate, gratuitamente). Nel frattempo la vittoria olimpica di Momiji Nishiya, ma anche quella di Yuto Horigome, che è molto più conosciuto a livello internazionale grazie a oltre un milione di follower su Instagram, ha contribuito a trasformare lo skateboard in uno sport popolare, mainstream, perfino tra i giapponesi meno convinti. I ragazzini, ma soprattutto le ragazzine, adesso, non vogliono fare altro. Un po’ come accadde con la pallavolo dopo le Olimpiadi di Tokyo del 1964, quando la nazionale femminile vinse l’oro contro l’Unione sovietica e per anni, nei decenni successivi, la pallavolo divenne parte integrante dei corsi scolastici giapponesi. Prima di queste Olimpiadi, per la federazione di skateboard giapponese avere il supporto economico del governo di Tokyo era praticamente impossibile. Ora ha un filo diretto con il primo ministro Yoshihide Suga.
E dalla politica dicono: dobbiamo essere più attenti, osservare i ragazzi, capire quali sono le loro passioni. Perché la società spesso resta indietro rispetto alla cultura sportiva, mentre una delle peculiarità dei giovani giapponesi è essere curiosi, vale a dire aprire lo smartphone e avere tutte le informazioni necessarie per imparare. La distanza tra tradizione e progresso è anche questo.
L’Ariake Urban Park, nell’umidissimo quartiere di Koto, davanti alla baia di Tokyo, è stato costruito per ospitare i Giochi olimpici del 2020. Ne hanno parlato tutti come di un luogo futuristico e ben progettato, tenendo in considerazione le richieste degli atleti e le differenze di fisicità. L’arena è divisa in due: da un lato c’è il percorso per la specialità “park”, dall’altro quello per la specialità “street”. Da un lato le rampe, i salti, le curve, dall’altro la riproduzione di un ambiente stradale, e quindi salti, movimenti, scivolamenti. Il tutto condito dal sottofondo musicale scelto dall’atleta. I giudici assegnano un punteggio da zero a cento valutando diversi fattori, dalla velocità alla difficoltà dell’esecuzione. I parchi chiusi e delimitati come quello Ariake sono i luoghi in cui tutta la nuova generazione di skateboarder giapponesi è cresciuta. Sui social network però circolano tantissime foto, in questi giorni, dei cartelli appesi sulle strade adiacenti all’Ariake Urban Park olimpico: “Skating banned”.
A differenza di altre grandi città occidentali, dove angoli di strade vengono praticamente colonizzati dai ragazzi sulle tavole a qualsiasi ora del giorno e della notte, a Tokyo è soprattutto dopo le undici di sera che si possono incontrare, anche se rarissimi, gli skater per strada. Si muovono veloci, sono poco stanziali. Perché mettere la tavola per terra è illegale – com’è illegale usare i pattini, la palla, insomma giocare in tutti i luoghi che non siano esplicitamente dedicati a quell’attività. Andare sullo skate in un posto dove non si dovrebbe può costarvi una multa e il divieto di tornare in quel posto: banditi a vita. Il Giappone è il paese delle regole, ed esiste tradizionalmente una particolare avversione verso quegli sport che possono generare disordine sugli affollati marciapiedi, che fanno rumore, come lo skateboard. Ma soprattutto contro quegli sport che sono collegati alla controcultura, alla diversità, al rifiuto delle regole imposte dall’alto. E’ un pregiudizio molto simile a quello che riguarda i tatuaggi, che sono ancora vietati in gran parte dei luoghi pubblici in Giappone – quelli dove ci si spoglia: i bagni pubblici, gli onsen, le terme e le spiagge – perché considerati una caratteristica dei membri della yakuza, la mafia giapponese.
Eppure in Giappone la popolarità dello skateboard ha preso una via alternativa, ed è stata inarrestabile. La sua evoluzione ha una storia simile a quella del baseball: entrambe sono attività che nascono in America, vengono esportate nel paese del Sol levante dopo la Seconda guerra mondiale, e si trasformano col passare degli anni in uno stile tutto giapponese. Il baseball, che era stato eliminato dai Giochi olimpici estivi dopo l’edizione del 2008, è tornato quest’anno a Tokyo. Ci sarà solo per questa edizione, quella più giapponese di sempre. Lo skateboard nasce in California negli anni Quaranta e Cinquanta, quando i surfisti pensarono di mettere le rotelle al surf per usarlo anche su strada. Nel Dopoguerra le tavole da skate arrivarono anche in Giappone, ma è soprattutto negli anni Settanta che si diffonde nel paese grazie a quei gruppi che i giapponesi conservatori chiamavano “teppisti”. La grande differenza è tutta qui: il baseball, anche negli allenamenti e nella disciplina, nel corso del tempo viene trasformato in un’arte marziale. Una via, -do, il suffisso di tutte le arti marziali giapponesi che hanno a che fare con un percorso formativo, più che sportivo: ju-do, kyu-do, karate-do, ken-do. Il baseball diventa “la via del baseball”, e gli elementi del bushi-do (letteralmente “la via della guerra”, praticamente un concetto molto più ampio di abnegazione ed elevazione spirituale) vengono applicati anche allo sport di squadra americano. Con lo skateboard succede il contrario: la sua natura caotica, senza regole, lo fa sfuggire alla trasformazione in disciplina. Per il grande pubblico è solo l’attività dei punkabbestia, dei fricchettoni, dei reietti. Poi succede qualcosa.
Autorevoli fonti dell’ambiente skater giapponese raccontano che per togliere i ragazzi dalle strade a un certo punto il Giappone inizia a costruire gli skate park. Oggi soltanto a Tokyo ce ne sono almeno dieci, alcuni coperti, altri all’aperto, alcuni gratuiti, altri a pagamento. Tutti però hanno una caratteristica: sono fuori dalla città. Anche se non sono in centro, i ragazzini iniziano a frequentarli lo stesso: prendono la metropolitana e trascorrono intere giornate lì. Sono sempre più giovani, si moltiplicano i gruppi e le associazioni sportive. All’attività di skateboarding si unisce anche una certa moda ben precisa: aprono negozi specializzati, l’abbigliamento cambia e anche la musica – il periodo d’oro della scena punk e ska giapponese. Moltissimi dei ragazzini che fanno skateboard in Giappone, oggi, sono i figli dei precursori degli anni Settanta e Ottanta.
Non che negli skatepark di oggi non ci siano regole: a differenza di quelli di altri paesi nel mondo, in moltissime aree attrezzate nipponiche non si possono bere alcolici (andatelo a dire in una qualunque delle strutture americane) e non si possono fare foto (andare sullo skateboard tenendo lo smartphone in mano può essere pericoloso). E un altro aspetto molto interessante di questa trasformazione culturale “dal basso” è che lo skateboard è soprattutto pratica personale, non ci sono maestri e insegnanti. In una società come quella giapponese dove i ruoli sociali sono ben definiti praticamente ovunque, l’equiparazione del principiante e dello skater esperto, della femmina e del maschio, che saltano magari nello stesso parco, diventa un valore aggiunto, desiderabile per molti giovanissimi.
E così mentre i dojo, le palestre dove si impara il karate o il kendo – per non parlare del sumo – si svuotano, i giovani prendono la tavola. Al nord, nella prefettura dell’Hokkaido, oppure in quella di Nagano tra le Alpi giapponesi, la tavola è quella dello snowboard; al sud, nella prefettura di Okinawa, è quella da surf.
Il sorriso felice della tredicenne Momiji Nishiya, subito dopo l’annuncio della sua medaglia d’oro, è stato soprattutto il momento in cui il Giappone ha capito di non aver riconosciuto quanto sta cambiando. Le ragazzine non sono più femminucce.