La guerra che era segreta
L’Iran ha deciso di rischiare molto di più nelle operazioni contro Israele e americani, adesso usa droni suicidi e i risultati si vedono: due morti, rappresaglie internazionali e l’ascesa di un generale ambizioso
Il problema dell’attacco da parte dell’Iran contro la nave commerciale Mercer Street nello Stretto dell’Oman è tecnico e assieme anche politico. Come sappiamo, Israele e l’Iran sono impegnati dal maggio 2019 in una guerra discreta in mare fatta di attacchi reciproci a navi legate in modo anche debole ai due paesi. Un colpo da una parte, un colpo dall’altra, ogni poche settimane. Israele attacca una petroliera iraniana che trasporta greggio verso la Siria in violazione delle sanzioni internazionali, l’Iran attacca una nave commerciale che in qualche modo è legata a interessi israeliani – basta che un armatore sia cittadino israeliano e questo legittima l’azione – e così via, in un ciclo di rappresaglie che s’affianca come uno spettacolo minore alle altre storie più importanti di questo conflitto: i bombardamenti dei jet israeliani in Iraq e in Siria, i sabotaggi contro i siti atomici dell’Iran, le milizie iraniane che spadroneggiano in Iraq, Libano, Siria e Yemen, i finanziamenti da parte dell’Iran ai gruppi armati palestinesi nella Striscia di Gaza.
Finora questa guerra navale di Israele e Iran tra il Mediterraneo orientale, il mar Rosso e il Golfo dell’Oman si era combattuta secondo una regola precisa: niente vittime a bordo. I due paesi hanno i mezzi militari per colare a picco una flotta di mercantili in pochi minuti e per bloccare il Golfo, ma quel che si è capito dalle circa venti operazioni delle quali si ha notizia è che preferiscono scambiarsi colpi che sembrano messaggi e che quasi non vanno a finire nei notiziari internazionali. Per questo, si diceva, la tecnica di guerra è anche politica: uomini rana dell’uno e dell’altro paese si avvicinano di soppiatto al cargo durante la navigazione, piazzano mine al di sopra della linea di galleggiamento e le fanno detonare. E’ una versione friendly di quel che fece la X Mas alle navi inglesi nel porto di Alessandria D’Egitto nel dicembre 1941. Il risultato è che le navi non affondano ma non possono proseguire il viaggio – chi affronta il mare con quattro fori sulle fiancate? – e tornano indietro ai porti di origine.
Venerdì però l’Iran ha attaccato la nave commerciale Mercer Street con un drone suicida, che è andato a schiantarsi con la sua carica di esplosivo sul ponte della nave, dove ha fatto un buco nel metallo e ha ucciso due marinai – un inglese e un rumeno. Forma e dimensioni del danno fanno pensare a un drone modello Shahed 136, che può volare per circa 900 chilometri con un carico di esplosivo ed è stato usato nell’attacco contro le raffinerie saudite nel settembre 2019 (un altro episodio del conflitto che si tende a dimenticare, ma bloccò circa metà della produzione saudita per mesi). La tecnica, si diceva, è anche politica: quando gli iraniani usano un drone suicida invece che gli uomini rana, accettano la possibilità di uccidere qualcuno. Si tratta di una decisione deliberata e calcolata che risale a quattro mesi fa. Ad aprile sono successe cose importanti: una esplosione sotterranea ha semidistrutto il sito iraniano di Natanz, dove le centrifughe arricchiscono l’uranio che potrebbe diventare combustibile per un’arma atomica; le milizie iraniane hanno attaccato con droni esplosivi la base della Cia dentro l’aeroporto internazionale di Erbil, nel nord dell’Iraq; gli israeliani hanno attaccato una nave spia iraniana, la Saviz – sempre ferma nel Mar Rosso per osservare il passaggio delle altre navi – con mine piazzate sotto la linea di galleggiamento e che quindi avrebbero potuto affondarla. Il conflitto ha preso un’altra forma, è salito di livello, è diventato una scommessa: nessuno è in grado di prevedere cosa succederà, eppure si va avanti e si accetta l’azzardo. Vale la pena ricordare che il presidente prima di Joe Biden, Donald Trump, all’inizio del 2020 dette l’ordine di uccidere il generale Qassem Suleimani perché meno di un mese prima un cittadino americano era stato ucciso da un razzo delle milizie sparato contro una base americana in Iraq. C’era stata una catena di eventi molto rapida. Gli Stati Uniti avevano risposto con un bombardamento aereo contro le basi delle milizie, le milizie avevano assediato l’ambasciata americana a Baghdad – fu il momento nel quale l’escalation cominciò a occupare i notiziari – e pochi giorni dopo un drone americano assieme a una squadra di cecchini uccise il generale iraniano sulla strada dell’aeroporto della capitale irachena (questo conflitto si combatte perlopiù su territorio altrui). Si cominciò a parlare di guerra imminente.
Anche adesso si ricomincia a parlare di escalation, perché ci si si aspetta una rappresaglia militare di Israele e poi una contro rappresaglia da parte di Teheran. Stati Uniti, Gran Bretagna, Israele e Romania sostengono di avere condiviso dati d’intelligence incontrovertibili che dimostrano la responsabilità dell’Iran nell’attacco di venerdì contro la nave Mercer Street. Ieri il quotidiano israeliano Haaretz, che di solito è la voce della moderazione, ha scritto che l’attacco arriva per ordine del generale Amir Ali Hajizadeh, che comanda da dieci anni l’aeronautica dei Guardiani della rivoluzione e che era molto vicino a Qassem Suleimani. “Uccidere Trump non sarebbe una vendetta sufficiente per la morte di Suleimani”, disse e non è che uno dei suoi molti pronunciamenti enfatici. Hajizadeh potrebbe diventare ministro della Difesa nel governo di Ebrahim Raisi. Secondo le fonti di Haaretz, il generale iraniano avrebbe ricevuto “carta bianca” per compiere attacchi con i droni suicidi. La possibilità di fare vittime, di finire nelle news, di alzare di una tacca il confronto era contemplata. E’ possibile che gli iraniani non volessero proprio uccidere un inglese e un rumeno, così laterali rispetto alla guerra – ma è quello che può accadere quando attacchi con una bomba e per motivi simbolici una nave giapponese, battente bandiera liberiana (come nella citazione del film Borotalco di Carlo Verdone, sì) gestita da una compagnia con base a Londra e che ha tra i suoi proprietari un magnate israeliano. Da Teheran smentiscono, dicono di non sapere nulla di quello che è accaduto e che le accuse sono un complotto internazionale. Il segretario di stato americano Antony Blinken ha detto però in un comunicato che l’Iran ha usato un drone suicida e che adesso ci sarà “una risposta appropriata”, il primo ministro inglese Boris Johnson ha detto che “l’Iran deve affrontare le conseguenze di quello che fa” e il primo ministro israeliano Naftali Bennett domenica, dopo avere annunciato di avere le prove dell’attacco, ha concluso così la sua dichiarazione: “In ogni caso, sappiamo come far arrivare all’Iran il nostro messaggio”, che è una minaccia ovvia.
Fu Hajizadeh a rivendicare nel giugno 2019 l’abbattimento dell’aereo spia Global Hawk americano in volo ad altissima quota sullo Stretto (un velivolo con apertura alare di quaranta metri che portava a bordo un concentrato prezioso di tecnologia militare, adesso la stiamo decifrando tutta, si vantò il generale iraniano). Viene da pensare che l’aggressività di questi mesi potrebbe essere un biglietto di presentazione internazionale per il generale Hajizadeh, volto duro dei pasdaran che colma il vuoto lasciato da Suleimani più del generale Ismail Qaani, che ha preso il posto di Suleimani senza il suo carisma. Il generale dei droni messo in tandem a fianco di Ebrahim Raisi, l’ex giudice dei massacri contro gli oppositori che giovedì diventa presidente dell’Iran, a gestire la prossima fase dei negoziati nucleari e della vita del paese.
L'editoriale del direttore