La nuova presidenza dell'Iran inizia con un processo in Svezia che riguarda anche Ebrahim Raisi
Per il principio della giurisdizione universale un tribunale di Stoccolma apre un procedimento su un massacro iraniano. Una prima volta che preoccupa le élite di Teheran
E’ il 9 novembre 2019, il cittadino iraniano Hamid Noury è in volo verso Stoccolma per un viaggio di piacere, ma appena atterra all’aeroporto di Arlanda e mette piede sul suolo svedese viene arrestato. Quando invece dei suoi parenti si è trovato ad attenderlo la polizia, la mente deve essergli andata ai tempi in cui era il braccio destro del procuratore nella prigione di Gohardasht a Karaj, quaranta chilometri ad est della capitale Teheran. Era l’estate del 1988, quella di un massacro. Migliaia di oppositori politici vengono prelevati dalle loro celle e portati di fronte alla “commissione della morte” per essere poi giustiziati senza processo e senza possibilità di difendersi. Tra i quattro giudici che ordinano quelle esecuzioni c’è anche un ventottenne ambizioso che, nonostante la giovane età, è già diventato vice procuratore a Teheran, si chiama Ebrahim Raisi e dopodomani si insedierà come nuovo presidente della Repubblica islamica d’Iran.
E’ da quel 9 novembre di due anni fa che Raisi teme ciò che il funzionario Noury può aver raccontato alle autorità svedesi, le testimonianze dei sopravvissuti e i documenti che queste possono aver raccolto durante le indagini preliminari, che le fosse comuni in località segrete siano già state localizzate e che il tutto si trasformi presto in un processo internazionale seguito dalla stampa straniera proprio quando inizia il suo primo mandato da presidente. Un mandato che ha come priorità — a prescindere dalla retorica e dalla propaganda dei conservatori — quella di chiudere il prima possibile un nuovo accordo sul nucleare con l’Amministrazione Biden, per veder abolita almeno una parte delle sanzioni.
In Svezia, il 13 novembre 2019 la Corte competente aveva deciso la custodia cautelare in carcere per Noury, il mese successivo era stata rinnovata, lo stesso era accaduto il mese dopo e si era andati avanti così per più di un anno e mezzo. Fino al 27 luglio, giorno in cui le procuratrici Kristina Lindhoff Carleson e Martina Winslow annunciano che “il procedimento internazionale contro Hamid Noury inizierà il prossimo 10 agosto e continuerà fino all’aprile del 2022”. Che saranno ascoltati “vittime, testimoni e periti da tutto il mondo”. E’ un processo senza precedenti perché è la prima volta che viene invocato il principio della giurisdizione universale contro un cittadino iraniano.
I pasdaran e le spie della Repubblica islamica che si trovano in carcere in Francia o in Germania sono stati condannati per i complotti orditi e gli omicidi compiuti in Europa, mai per i crimini perpetrati all’interno dei confini iraniani. E’ un processo senza precedenti anche perché riguarda eventi su cui non è mai stata fatta luce in sedi ufficiali e dal quale ci si aspetta di conoscere i dettagli sul ruolo svolto dal prossimo presidente dell’Iran. I nomi, i volti e le storie dei condannati, i retroscena sulla catena di comando e le modalità adottate per le esecuzioni. Perché a molte famiglie, come quella del prigioniero ventottenne Bijan Bazargan, sono stati consegnati certificati di morte in cui lo spazio dopo “causa del decesso” era lasciato in bianco e in cui veniva omesso anche il luogo di sepoltura.
Un passo indietro. Gli anni ottanta sono gli anni della guerra tra la Repubblica islamica che si è appena costituita e l’Iraq di Saddam Hussein, è allora che l’ayatollah Khomeini ordina la condanna a morte dei prigionieri che facevano parte dei Mojahedin del Popolo, il gruppo di opposizione che lavorava per rovesciare la teocrazia e trasformarla in una Repubblica laica, all’epoca composto da marxisti e nazionalisti di sinistra che si erano dati alla lotta armata e alla complicità con il nemico iracheno. Esiste un momento nel corso di queste esecuzioni di massa, più precisamente tra il 27 agosto e il 6 settembre 1988, in cui la leadership iraniana decide che anche tutti gli altri prigionieri che simpatizzavano con le idee della sinistra, o erano sospettati di farlo, dovevano essere giudicati “apostati” e per questo condannati a morte. Per le idee e senza valutarne le azioni, senza indagini e processi per scoprire se facessero o meno parte di quello che gli iraniani (finché non hanno abbandonato la lotta armata, anche gli europei e gli americani) consideravano un gruppo terroristico. Secondo l’accusa depositata qualche giorno fa dalle pm svedesi, è stato proprio l’imputato Hamid Noury ad aver ucciso intenzionalmente, in concorso con altri, molti di quei prigionieri. Ed è proprio perché queste esecuzioni non sono in alcun modo collegate a un conflitto armato che la pm Kristina Lindhoff ha concluso: “Considerando gli obblighi internazionali e il principio della giurisdizione universale, questi tipi di reati sono considerati così gravi che, indipendentemente da chi li ha commessi e da dove siano stati commessi, un tribunale nazionale come il nostro non solo può, ma deve procedere”.
Nessun tribunale nazionale, in nessun paese del mondo, lo aveva mai fatto prima. E’ una prima volta e un precedente pericoloso per l’élite iraniana che ne teme gli esiti e non ha ancora la più pallida idea di come affrontare questa situazione.