Tokyo 2020 +1

Volete la politica fuori dalle Olimpiadi? Chiedetelo alla Cina

Giulia Pompili

Bao Shanju e Zhong Tianshi hanno vinto l’oro di ciclismo su pista a squadre, e si sono presentate sul podio indossando una spilletta con l’immagine di Mao Zedong. Il Cio aveva allegerito le regole sulla politica per permettere agli atleti di inginocchiarsi

Un’edizione dei Giochi olimpici priva di messaggi politici non c’è mai stata, nonostante l’esplicito divieto del Comitato olimpico internazionale a usare la piattaforma olimpionica per scopi diversi da quelli sportivi. Quando però due atlete cinesi, Bao Shanju e Zhong Tianshi hanno vinto l’oro di ciclismo su pista a squadre, si sono presentate sul podio indossando una spilletta con l’immagine di Mao Zedong appuntata sulle rispettive uniformi. Il Cio ha domandato chiarimenti alla delegazione cinese, ma sembra che l’articolo 50 del regolamento – quello che vieta manifestazioni e messaggi politici dal podio – non sia stato violato. Perché il mese scorso il Cio ha deciso di modificare quelle norme e dare la possibilità agli atleti  di inginocchiarsi: una forma di protesta contro il razzismo nata in America durante l’esecuzione dell’inno nazionale, e poi negli anni diventata molto popolare in occidente. Anche quando qualche giorno fa l’atleta americana Raven Saunders, argento nel lancio del peso femminile, ha alzato le braccia formando una specie di X sulla sua testa, è stata aperta un’indagine da parte del Cio per violazione dell’articolo 50, ma difficilmente ci saranno conseguenze perché, a sentire la Saunders, la X rappresenta “l’unità delle persone discriminate”.  La nazionale cinese ha sfruttato l’alleggerimento delle regole per fare quello che gli riesce meglio: propaganda. E quindi ecco l’immagine di Mao – anche se minuscola e quasi insignificante per il pubblico occidentale – fare il suo ingresso ufficiale a un’edizione dei Giochi olimpici moderni. 


La Cina punta moltissimo su Tokyo 2020 + 1 come vetrina internazionale ma anche per trasformare in un successo la prossima edizione delle Olimpiadi, che ospiterà Pechino nel 2022. Con l’aumentare delle tensioni tra la Cina e il mondo occidentale, però,  il palcoscenico di Tokyo sta mostrando anche le contraddizioni e le storture del modello cinese, oltre che il violento nazionalismo su cui soffia da anni la leadership di Xi Jinping – e forse anche le ipocrisie del resto del mondo quando si tratta di Cina. 


Quando il giapponese Daiki Hashimoto ha trionfato nella gara di all-around di ginnastica artistica, battendo il rivale cinese Xiao Ruoteng, l’atleta nipponico è stato ricoperto di insulti ma soprattutto di insinuazioni, riportate poi su alcuni media cinesi tra cui il tabloid Global Times. L’arbitro, di nazionalità indiana, è stato accusato di aver favorito Hashimoto perché mosso da “sentimento anticinese”. Gli hater cinesi sono arrivati fino alla pagina Instagram dell’atleta nipponico, aggirando il firewall cinese, fino a quando Hashimoto non ha deciso di impostare come privato il suo profilo sui social. Più o meno lo stesso era accaduto qualche giorno fa alla coppia Mima Ito e Jun Mizutani, che hanno vinto l’oro nel ping pong battendo la Cina: Ito è stata costretta a cancellare il suo account su Weibo. Sull’episodio è intervenuto pure Katsunobu Kato, capo di gabinetto del primo ministro giapponese Yoshihide Suga, che ha detto: “Chiediamo a tutti di lasciare gli atleti concentrarsi sulle competizioni”. 


C’è però  una nazionale che  più delle altre subisce la pressione cinese – ormai una potenza in tutte le manifestazioni internazionali, anche grazie al supporto economico che gli sponsor cinesi offrono a certi mega-eventi. Taiwan, che Pechino rivendica come proprio territorio, non può gareggiare con la bandiera nazionale (quella rossa con quadrato blu e il sole con i dodici raggi bianco). Tantomeno chiamarsi “Taiwan”, ma soltanto “Taipei cinese”. Quando, nella gara di badminton, la nazionale taiwanese composta da Lee Yang e Wang Chi-Lin ha vinto la finale sulla squadra cinese, l’imbarazzo si è sentito più che in altri momenti.  Il Cio ha usato i propri canali sui social  per annunciare i risultati della gara, e a differenza di tutte le altre squadre, non ha usato la bandiera taiwanese per il badminton. Al momento di salire sul podio, per la prima volta nella storia, di fronte ad atleti di nazionalità cinese, è stato suonato l’inno alla bandiera di Taipei (l’inno nazionale taiwanese, che è un altro brano, non può essere suonato nelle competizioni internazionali). L’evento ha portato a diverse dichiarazioni in favore di Taiwan, e alcune richieste formali di normalizzare la partecipazione del paese – anche se non riconosciuto indipendente dalla maggior parte dei governi del mondo – almeno nelle manifestazioni in cui la politica non dovrebbe entrare. Ma è, al contrario, una questione soprattutto politica. 

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  • Giulia Pompili
  • È nata il 4 luglio. Giornalista del Foglio da più di un decennio, scrive soprattutto di Asia orientale, di Giappone e Coree, di Cina e dei suoi rapporti con il resto del mondo, ma anche di sicurezza, Difesa e politica internazionale. È autrice della newsletter settimanale Katane, la prima in italiano sull’area dell’Indo-Pacifico, e ha scritto tre libri: "Sotto lo stesso cielo. Giappone, Taiwan e Corea, i rivali di Pechino che stanno facendo grande l'Asia", “Al cuore dell’Italia. Come Russia e Cina stanno cercando di conquistare il paese” con Valerio Valentini (entrambi per Mondadori), e “Belli da morire. Il lato oscuro del K-pop” (Rizzoli Lizard). È terzo dan di kendo.