Il documentario su (e con) Obama pone il dilemma: fu all'altezza di se stesso?
Le sue intuizioni, ma anche i rimpianti e le recriminazioni
Bisogna venire a patti con l’idea che a Barack Obama, l’uomo che provò a far sembrare abbordabile la figura presidenziale, piacciano in modo smisurato le celebrazioni, in particolare quelle per il suo compleanno. C’è uno storico a dimostrarlo, in parte ambientato a Pennsylvania Avenue, ma la sensazione è che la festona con cui Michelle e Barack santificheranno l’ingresso dell’ex presidente tra le pantere grigie, in coincidenza con lo scoccare dei 60, oscurerà i precedenti. Scenario è l’isola più presidenziale del mondo, Martha’s Vineyard, a largo della costa wasp del Massachusetts. Centinaia di invitati, pioggia di celebrities (Spielberg, Clooney, Springsteen, Vedder, la cricca degli irriducibili obamiani), polemiche Covid sulla promiscuità, il solito giochino perbenista dello “staremo tutti all’aria aperta”, liberi di non crederci o sorvolare (i residenti mugugnano, ma per le tremolanti economie degli isolani un evento così è una boccata di ossigeno).
La festa ci sarà, bella e inevitabilmente intrisa di nostalgia e Hbo è già pronta ai blocchi di partenza col documentario definitivo sulla vita e le opere di Obama (“Obama: In Pursuit of a More Perfect Union”, cinque parti, diretto da Peter Kunhardt, capace di radunare le testimonianze di quelli che hanno contato, dal reverendo Jeremiah Wright a Ta-Nehisi Coates a David Axelrod, indimenticabile stratega delle campagne di Obama). Fin qui tutto nella norma, compresa l’ormai evidente intenzione dei coniugi Michelle-Barack di mediatizzare la propria vita e le proprie idee, mescolando biografia e progetti, grandeur e intimità e perfino sontuosi contratti Netflix e strizzate d’occhio al megagruppo Warner (titolare di Hbo).
Dove invece il ragionamento resta aperto è sul significato, l’intensità e gli effetti del passaggio del primo afroamericano alla Casa Bianca, con quella sua idea fissa di portare con sé e con i suoi due mandati la sistemazione definitiva della questione razziale in America – a latere della soluzione di altri problemini non trascurabili, dalla peggiore crisi economica dopo il ’29, all’opinabile quadratura del cerchio sul ruolo degli Stati Uniti nel mondo.
L’intuizione di Barack al riguardo fu duplice: prima di tutto quella di recuperare una virtù dimenticata nella tradizione presidenziale americana, quella del potere della parola. Pensateci: cosa vi è rimasto in mente, più di ogni altra cosa, dell’Obama presidente? I suoi discorsi, quell’oratoria da predicatore, l’eloquio ironico e solenne, potente, diretto e coinvolgente. La seconda idea fu quella di provare a parlare del grande peccato americano – il disprezzo tra le razze, l’offesa e il mancato risarcimento – rivolgendosi a tutti, bianchi e neri, sostenitori e detrattori, coinvolti e disinteressati, donne e uomini. Chiamare ciascuno alle proprie responsabilità, pretendere lo sforzo collettivo. Ripensandoci, calcolando che dall’epilogo di quello sforzo (già privo dell’iniziale convinzione) siano passati cinque terribili anni, viene da dire che il tentativo, nobile e colpevolmente teorico, sia andato a vuoto. Messaggio respinto, non recepito. E dunque essenza di un incarico presidenziale fallita.
Ma è davvero così? Si poteva fare di meglio? Obama non è stato all’altezza di se stesso? Rimpianti e recriminazioni si sovrappongono. Perché il valore dell’uomo resta lampante. E la sensazione che fosse al posto giusto è difficile da scalfire. Se solo dall’ultimo giorno da presidente non avesse smaccatamente imboccato la via della sola rappresentazione. Se solo non si fosse sottratto allo sforzo, se solo avesse ritrovato quello spirito eccezionale e l’unicità che lo fece risplendere agli inizi. Notato, da chiunque avesse intuito, come la suprema speranza nazionale.