Contro la cancel culture, ridare a Volgograd il nome di Stalingrado
Sarebbe un gesto di restaurazione della verità, e della tragedia. L'errore di negare la storia con la cancellazione delle vestigia del passato
Un gesto di restaurazione contro la cancel culture, questo sarebbe il nuovo battesimo di Volgograd, la città del Volga, con il nome precedente di Stalingrado. Chi ha letto il gran libro di Vasilj Grossman, “Vita e destino”, sa bene che Stalingrado fu una città a due facce, come il dio Giano, il dio degli inizi spesso rappresentato bifronte nel segno mistico del passato che è rilevato dal futuro. Una faccia è quella tremenda della guerra che non sospende ma alimenta le delazioni, le ingiustizie burocratiche torve, gogoliane, il mascheramento della violenza contro nemici e amici, fratelli e compagni, come fattori del totalitarismo politico e dell’ideale classista, operaio, sovietico.
Tutto è travolto nella faccia stalinista di Stalingrado, non solo la vita e il destino ma anche la banalità dell’amore, l’infatuazione, la chiacchiera in libertà, la battuta di spirito, l’intelligenza, la scienza, il coraggio e l’onore che si rifugiano nel distaccamento anarchico del caposaldo sei barra uno, la casa del combattente assoluto Grekov. E’ il regno di una paura inesausta, di menzogne al piombo fuso, vi si riverberano come ombre oscure nella steppa le tragedie della guerra ai kulaki, delle carestie procurate o avallate, dell’inferno del famoso Trentasette, l’anno chiave delle purghe, degli arresti, delle perquisizioni improvvise, del terrore allo stato puro, della vita di lager.
La storia tuttavia fomenta un’altra verità, anche e sopra tutto nel romanzo di Grossman (fu sequestrato in un sussulto di stalinismo culturale, e distrutto, ne sopravvissero due copie clandestine che l’altra verità hanno aperto al mondo stupefatto della destalinizzazione). E’ quel tipo di verità che la cancellazione delle vestigia del passato nega, perché non è in grado di riconoscerla, deve sostituire la favola ideologica alla robustezza realista del racconto epico. A Stalingrado, questa città fatale da cui partì la riscossa militare contro il Terzo Reich, le cui armate erano guidate da Friedrich Paulus, questo teatro di fabbriche acciaierie infrastrutture industriali in cui furono tirati i dadi della nostra libertà dal nazismo, è stato anche una grandissima epopea di vodka, di amicizia, di bontà e di pietà, di sofferenza per la vittoria, di illusioni fraterne e umanitarie, di abnegazione indicibile. Lì dove al Bene della causa tutto sembrava tragicamente sacrificato, proprio lì emerse quella bontà spicciola, casuale, piccola, priva di altro senso che non sia quello genericamente umano, in cui Grossman vedeva una delle qualità quintessenziali, come Tolstoj prima di lui per la campagna napoleonica di Russia, di un popolo in movimento che riuscì a devastare e respingere partendo dalle terre calmucche il più potente, disciplinato, terroristico esercito prodotto dal ferrigno corso della storia novecentesca.
E’ un’epopea lenta, grandiosa, climatica, fatti d’arme e di vita in elefantiaca progressione attraverso i crateri delle bombe, le nuvole di terra addensate in colline, centinaia di migliaia di morti, con i singoli atti di eroismo, l’indifferenza al destino e l’amore per la vita, in cui la volontà diventò la via d’uscita della forza. E in questa storia senza eguali, confinante con il mito come poche altre storie, il nome di Stalin, succeduto a quello della antica Tsaritsin, città degli zar, fu l’opaco propulsore del patriottismo grande russo, l’origine simbolica del sussulto disperato e dello sfondamento finale fatto di valore militare, ubriachezza, ferocia animale, idealismi tutti posti sulla stessa linea mitopoietica, una creazione dell’umano appaiata alle grandi battaglie del passato, e oltre.
E’ orribile questa mescolanza, questo ineludibile riferimento della città a Stalin, quel “padre dei popoli” che fu un freddo esecutore di morte e un disperato, butterato, mostruoso costruttore di infelicità e di ingiustizia come sistema di vita. Ma è così. Vale per i grandi del colonialismo e della schiavitù, vale per Churchill, vale per Napoleone, vale per tutte le figure e figurine che nell’album della memoria sono allineate sotto la dicitura della grandezza, anche terribile, espressa nel tempo passato, e generatrice di tempo futuro. Non è un vezzo questo atto conflittuale con la tendenza moderna al cancellino della storia, sebbene sia effimera l’iniziativa di tornare ai nomi del passato cancellati da chi quel passato aveva condiviso (Kruscev) e se ne distaccò in nome del suo legittimo, giusto superamento. Stalingrado è Stalingrado.