È finito il tempo dei click?
In Bielorussia la protesta pacifica si chiede se non sia arrivato il tempo delle armi
Come combattere un regime che non teme la violenza? I dubbi della piazza gentile e molto instagrammabile dei bielorussi, dispersa in mille rivoli
“Prendiamo i forconi”. Il dolore e la rabbia di Bozhena Zholud, la compagna dell’attivista Vitali Shishov, ucciso a Kiev, fa esplodere il drammatico non detto della rivoluzione bielorussa. Un anno fa tutti, a Minsk, a Bruxelles, perfino a Mosca, applaudivano una rivolta popolare pacifica, estrosa e composta nello stesso tempo, e i primi ad attingerne autostima erano gli stessi bielorussi, che si scoprivano europei nello spirito e non solo nel DNA, non violenti, trasversali, organizzati dal basso in una serie di comunità autogestite per canali digitali, solidali, uniti e coraggiosi. Il simbolo di quella protesta erano le marce di ragazze, bellezze biancovestite che sfidavano la brutalità della polizia scandendo “Nessuna ve la darà mai più”, e i manifestanti che, prima di salire in piedi sulle panchine si toglievano le scarpe, un premuroso gesto di attenzione verso gli altri così caratteristico di un piccolo popolo con un grande senso di comunità.
Un anno dopo, quelle immagini di una rivoluzione popolare, commovente e pacifica, l’ultimo pezzo mancante di un 1989 a scoppio ritardato che doveva abbattere l’ultimo muro, sembrano tratte da un sogno. Le ragazze della piazza sono in carcere, o in esilio, o ridotte al silenzio dagli arresti, dai manganelli e dalla paura: la loro resistenza viene raccontata in “Le donne di Minsk”, un libro pensato da Laura Boldrini e Lia Quartapelle come una testimonianza di quella protesta senza precedenti (appena uscito per Infinito Edizioni). Svjatlana Tikhanovskaya, la presidenta Sveta che ha vinto nelle urne il 9 agosto del 2020, da casalinga è diventata una leader politica che visita la Casa Bianca di Joe Biden, ma non può più tornare in patria, insieme alla sua alleata Veronika Tsepkala, alla scrittrice premio Nobel Svjatlana Aleksievich e a quasi tutti gli altri capi dell’opposizione, riparati a Vilnius, a Riga, a Varsavia, a Berlino. Maria Kalesnikava, la bionda del triumfemminato che aveva sfidato il dittatore, balla in gabbia al processo iniziato due giorni fa a Minsk: è accusata di congiura ed estremismo, rischia fino a 12 anni di carcere, negli undici mesi dietro le sbarre non ha potuto mai vedere la sua famiglia, ma sorride e mostra le mani a forma di cuoricino, come faceva un anno fa davanti ai poliziotti in piazza, perché “dimostrare che non ci siamo arresi, è la cosa migliore che posso fare oggi”.
Maria è l’icona della resistenza, come la velocista Krystyna Timanovskaya, appena atterrata a Varsavia dopo il tentativo di deportazione dalle Olimpiadi di Tokyo, ordinato da Lukashenka. La testimonianza sembra però l’unica arma rimasta. La rivoluzione che stendeva un giornale per non sporcare era nata dall’ideale di una democrazia che vince grazie alla dea Ragione: se tutto il popolo esprime la sua volontà, il tiranno crolla. Quello che nessuno aveva messo in conto è che il tiranno – con il suo 3per cento di consensi, il fallimento economico, la corruzione e la reputazione di matto del villaggio – avrebbe sfidato la realtà, lanciando una repressione che nel continente europeo non si era più vista dal crollo del Muro. Ogni giorno, in Bielorussia ci sono arresti e condanne: a 2 anni, a 5 anni, a 7 anni, per disobbedienza a pubblico ufficiale, per “estremismo”, per “esposizione di simboli proibiti”.
A migliaia sono finite dietro le sbarre per aver indossato vestiti bianco-rossi, i colori della bandiera nazionale, per aver cantato una canzone, per aver rivelato la verità sulle morti sospette dei manifestanti, per aver fotografato le proteste. Nella Bielorussia di oggi, si ha paura a parlare, a telefonare, ad avere Telegram, il messenger dell’opposizione: la polizia picchia i fermati per strappargli la password, e molti la disinstallano o la occultano con una app che occulta le chat vere con una schermata fasulla. Il ritorno in piazza promesso da Tikhanovskaya in primavera non c’è stato. La rivoluzione si è spezzata in mille rivoli, proteste da cortile, da condominio, da fabbrica, da chat, ma la repressione è troppo pesante per farli confluire in un fiume. Lukashenka ha scelto la strada del non negoziato e non ritorno dal giorno in cui ha fatto ridere tutti brandendo davanti alle telecamere un kalashnikov senza caricatore. Un anno fa, il “kartoffen-fuhrer” resta ridicolo, ma oltre a far ridere spaventa: il dirottamento dell’aereo della Ryanair per arrestare il giornalista dissidente Roman Protasevich, e ora la morte di Shishov, fuggito dalla Bielorussia per organizzare i compatrioti in esilio in Ucraina, e trovato impiccato in un parco di Kiev, mostra che Lukashenka non si fermerà di fronte a nulla. Non dialogherà mai con il suo popolo: “Noi per lui siamo le mucche per un contadino: le accudisce, le nutre e gli gratta perfino l’orecchio, ma non le considererà mai una controparte, se si ribellano le manda al macello”, dice uno degli oppositori di Minsk a Shura Burtin nella magnifica inchiesta pubblicata dal sito d’opposizione russo Meduza.
Il “kartoffen-fuhrer” non ha remore di reputazione, di prudenza, di buon senso politico: nato nel 1994 come un tentativo posttraumatico di restaurare il sistema sovietico, dopo 26 anni il suo è un regime che non ha né ideologia, né visione, né struttura, è una dittatura personalista di stampo afro-sudamericano, il cui unico scopo è sopravvivere un giorno in più prima dell’inevitabile collasso, e l’unica speranza è quella di negoziare un salvacondotto per la famiglia di un despota che dovrà scegliere tra una fuga in qualche emirato arabo: una fine modello Gheddafi o Ceausescu. La farsa è diventata tragedia, e l’apertura di Tikhanovskaya a un negoziato con le componenti ragionevoli di regime diventa impraticabile: continue fughe di notizie anche molto imbarazzanti fanno pensare a un gruppo di potere che vorrebbe sbarazzarsi di Lukashenka, ma che ha una paura fisica di un leader che i soliti canali ben informati di Telegram definiscono ormai come impazzito in senso tecnico.
“Contro il martello non c’è rimedio” dice un vecchio detto russo, e il dubbio che la protesta dei bravi ragazzi fosse buona solo per Instragam serpeggiava già da mesi sui social, incalzato da un lato dagli ucraini – memori di come i quattro mesi di protesta europeista non violenta siano poi stati travolti da una carneficina sul Maidan e dalla guerra nel Donbass, e dall’altro dal fronte di Navalny, mentre Mosca diventa una dittatura sempre più simile a quella di Minsk. La risposta di Tikhanovskaya e compagni era sempre stata quella di evitare perfino una cicca buttata in direzione dei poliziotti: conoscevano il loro autocrate, che avrebbe colto il pretesto per una Tiananmen. Il risultato è stato una repressione totale, ma meno spettacolare, passata quasi inosservata dall’opinione pubblica internazionale che, quando non c’è da cliccare, si volta altrove.
Non è più tempo di clic, e Bozhena Zholud alla manifestazione in memoria del suo compagno ucciso – dalla polizia politica bielorussa, in un paese straniero, come appare abbastanza evidente – lo pronuncia per la prima volta ad alta voce: “Basta scendere in piazza con i fiori e i cartelli, vi prego. La protesta pacifica non ci porterà da nessuna parte. Dobbiamo unirci e prendere in mano le armi”. Lukashenka non aspettava altro, probabilmente, anche se chi osserva da vicino il regime sostiene che ormai non abbia più bisogno di pretesti, con i suoi collaboratori che inventano ogni settimana complotti nuovi per soddisfare le sue paranoie (e per dirottarle da se stessi). La triade teorizzata da Navalny – sfidare la propaganda per mobilitare la piazza dove chiedere e ottenere elezioni libere e oneste – ha funzionato in regimi le cui élite guardavano a ovest e sapevano che lo spargimento di sangue era un Rubicone da non attraversare, come quelli dell’ex Patto di Varsavia o l’Ucraina. Navalny è in carcere, e l’Osce non invierà osservatori al voto per la Duma a settembre, un preludio a far dichiarare le elezioni russe non democratiche, come da anni vengono bollate quelle bielorusse. Resta il dilemma delle opposizioni: come combattere senza violenza un regime che non teme la violenza?