Putin ha preso spunto dal dittatore di Minsk silenziando ogni cosa

Durante la conferenza stampa annuale Lukashenka ha detto che non ci sono stati manifestazioni, arresti o torture: "Quale repressione? Ho sparato a qualcuno? Ho ucciso qualcuno?”. Le nuove sanzioni di Stati Uniti, Canada e Regno Unito e il filo rosso tra il Cremlino e la "tenuta el dittatore"

Micol Flammini

L'anno di terrore bielorusso ha prodotto un'accelerazione della repressione in Russia. Il presidente russo si è messo a studiare quello che accadeva nella nazione vicina per fare in modo che non si verificasse a Mosca

L’anno di terrore bielorusso è stato “difficile”, ha detto ieri, durante la sua conferenza stampa annuale, Aljaksandr Lukashenka. Lo ha detto mentre beveva una tazza di tè, durante una maratona di più di sette ore, davanti a una platea che applaudiva generosa a ogni sua affermazione. Per Lukashenka è stato difficile perché “gente al soldo dell’occidente” ha rischiato di mettere in pericolo l’unità del suo popolo, ma lui non si è accorto di grandi manifestazioni, di arresti, di torture. Tutto costruito, montato: “Quale repressione? Ho sparato a qualcuno? Ho ucciso qualcuno?”. Ha detto che si sta preparando a lasciare la presidenza  – lo ripete ogni anno e mentre parlava su Google Maps il palazzo presidenziale di Minsk veniva ribattezzato “la tenuta del dittatore” –  e che se davvero Tikhanovskaya, la leader dell’opposizione  in esilio in Lituania, avesse vinto, lui non avrebbe avuto problemi a lasciarle il posto. Ma lei, ha insistito, non ha vinto. 

 

La Bielorussia a misura di Lukashenka è uno stato isolato e fragile. Ieri Stati Uniti, Canada e Regno Unito hanno annunciato nuove sanzioni e l’unico che segue i risvolti della situazione a Minsk senza giudizio, ma con interesse,  è Vladimir Putin. Il presidente russo non ama Lukashenka, non perde occasione per sottolinearne i difetti, ma in questa crisi si è schierato dalla sua parte. Oltre ad accordi economici e politici, quello che poteva ottenere dalla Bielorussia di un dittatore feroce e fuori di senno era un punto di osservazione privilegiato per studiare quello che può accadere quando la ribellione di un popolo contro un autocrate  diventa sistematica, convinta.  Quando un dittatore che ormai non è in grado di andare al passo con i tempi, inadatto a garantire la prosperità di una nazione, non sa reagire in altro modo se non con la violenza. Il Cremlino si è messo a studiare, anche Putin dimostra di essere sempre meno al passo con i tempi, anche la Russia rischia di essere  più isolata ed è bersagliata dalle sanzioni occidentali. Anche i russi hanno iniziato a ribellarsi per i loro diritti. E tutto quello che è accaduto a Minsk ha prodotto un’accelerazione autoritaria a Mosca. Lo scorso anno a Khabarovsk, in Siberia, i russi manifestavano contro l’arresto del governatore della regione, Sergei Furgal. Le manifestazioni erano state così ordinate  che anche la polizia locale si era stancata di reprimerle. Quel movimento, che il Cremlino aveva lasciato fare, lo considerava periferico, iniziò a riscuotere sostegno in tutta la nazione. Non aveva un leader, era spontaneo, era accanito contro Putin. Un pezzo alla volta, il presidente ha iniziato a smontarlo e la sua attenzione per tutti i movimenti di protesta è diventata  capillare: Putin non voleva certo permettere che la Russia si trasformasse nella Bielorussia. L’autoritarismo putiniano è diventato maturo, ha detto Andrei Kolesnkikov analista del Carnegie di Mosca. L’obiettivo è eliminare ogni forma di dissenso per le elezioni della Duma del 18 settembre. 

 

Il primo atto è stato la condanna ad Alexei Navalny. L’oppositore più famoso, il più insistente, il più convincente, era stato avvelenato poche settimane dopo lo scoppio delle proteste a Minsk. Secondo un’indagine indipendente a tentare di ucciderlo è stato una squadra dei servizi segreti che lo seguiva da anni. Navalny è stato curato in Germania e dopo il suo ritorno  in Russia, è stato condannato a  due anni e mezzo da scontare in una colonia penale. Il suo ritorno era stato accolto da grandi manifestazioni, le opposizioni si erano unite in difesa dei diritti dell’avvocato anticorruzione. Tutto si è spento in fretta: il movimento di Navalny si è ritrovato addosso l’etichetta di estremista, le sue attività si sono fermate, l’entusiasmo è stato congelato. Bandendo un attivista alla volta, un oppositore dopo l’altro: quasi nessuno che non sia del partito del presidente, Russia unita, ora può candidarsi. Neppure l’opposizione tollerata, quella  sistemica, sarà presente in alcune  schede elettorali. 

 

L’Ocse non invierà osservatori in Russia a settembre, i giornali di opposizione stanno chiudendo, gli attivisti fuggono, ma il dissenso non è scomparso, si è nascosto. Putin ha osservato Lukashenka, si è ispirato e ha accelerato la trasformazione del regime russo. Anche per la Russia si avvicina un anniversario triste: il 22 agosto sarà trascorso un anno dall’avvelenamento di Alexei Navalny. 
 

  • Micol Flammini
  • Micol Flammini è giornalista del Foglio. Scrive di Europa, soprattutto orientale, di Russia, di Israele, di storie, di personaggi, qualche volta di libri, calpestando volentieri il confine tra politica internazionale e letteratura. Ha studiato tra Udine e Cracovia, tra Mosca e Varsavia e si è ritrovata a Roma, un po’ per lavoro, tanto per amore. Nel Foglio cura la rubrica EuPorn, un romanzo a puntate sull'Unione europea, scritto su carta e "a voce". E' autrice del podcast "Diventare Zelensky". In libreria con "La cortina di vetro" (Mondadori)