Nel Panshir la resistenza è una storia antica. Ma quanto può durare?
Ahmad Massoud, figlio del leggendario combattente antitalebano, prova a guidare la lotta contro i fanatici, ma servono uomini e serve agire in fretta
Molte cose lasciano increduli del collasso afghano che si è appena consumato alla velocità della luce. Una di queste è perché nessuno, a cominciare dall’esercito, ha difeso con i soli mezzi consoni alle circostanze – mezzi militari – quella società afghana che odia i talebani, che negli ultimi vent’anni ha creduto alla costruzione di un paese diverso o che sotto la legge talebana non ha mai vissuto e mai avrebbe pensato di dover vivere: i ragazzi e le ragazze nati negli anni Duemila, i millennial che hanno ricordi confusi di quel regime e la “generazione Z” che lo conosce solo attraverso i racconti cupi degli adulti.
Esiste una resistenza per quanto piccola, sola e forse disperata. Esiste un vicepresidente, Amrullah Saleh, che non ha deluso come gli altri nel governo e come il presidente ormai fuggito Ashraf Ghani. Saleh, al contrario, è forse stato deluso più di chiunque altro. Ieri campeggiava sul suo account Twitter: “È inutile discutere con Biden sull’Afghanistan. Dobbiamo essere noi afghani a dimostrare che il nostro paese non è il Vietnam e i talebani non sono neanche lontanamente come i Vietcong. A differenza degli Usa e della Nato, noi non abbiamo perso lo spirito”. Per poi concludere, tutto in caratteri maiuscoli: “UNISCITI ALLA RESISTENZA”.
Alcune ore prima, durante la presa di Kabul, i network britannici trasmettevano le immagini di una pista di atterraggio con un elicottero su cui saliva a bordo Ahmad Massoud, il figlio del leggendario combattente antitalebano comandante Massoud. Era soprannominato il “Leone del Panshir”, l’eroe di quella roccaforte antitalebana dove era nato e che è tra le poche province che non si sono piegate. Accanto a Massoud jr. c’è il vicepresidente Saleh, sono insieme sull’Mi-17 di progettazione sovietica e in dotazione all’aeronautica afghana, sono scortati da uomini armati. Si trovano a tre ore di macchina dalla capitale e hanno appena fondato una coalizione antitalebana che si prepara a combattere.
La storia di queste giornate afghane è anche la storia dei figli cresciuti all’ombra di padri che hanno fatto la storia e – da entrambe le parti – di principi che vogliono diventare re, scià o emiri. Vent’anni dopo l’intervento americano, sono gli stessi cognomi a meritare attenzione: da un lato c’è Mohammad Yaqoob, trent’anni, primogenito del Mullah Omar. Yaqoob si è laureato a Karachi, in Pakistan, e lì ha vissuto con la famiglia dopo la caduta del regime. Oggi è un sostenitore degli accordi di pace siglati a Doha con gli Stati Uniti e in questi giorni ha lavorato alla “svolta diplomatica” (o alla nuova furbizia talebana), si è speso perché la presa di Kabul avvenisse senza spargimenti di sangue sotto i riflettori, nella speranza di un riconoscimento internazionale per il dopo.
All’estremo opposto c’è Ahmad Massoud, che vuole onorare il nome del padre eroe nazionale, che ha combattuto prima contro i sovietici e poi contro i talebani. Trentenne come il suo rivale Yaqoob, indossa il pakol, il tradizionale copricapo afghano che si porta sulla nuca, come suo padre. Ha studiato prima in Iran e poi in occidente. Ha fatto l’accademia militare a Sandhurst in Inghilterra e poi si è formato da “young leader” al King’s College e al City College. Il giovane Massoud, per tentare la sua impresa, aveva bisogno proprio di un uomo come Saleh. Che ha combattuto con suo padre negli anni Novanta, che conosce meglio di chiunque altro il territorio, sia dentro che fuori la Valle del Panshir. Saleh nel 2004 era diventato il capo della neonata agenzia di intelligence afghana, in quel ruolo, per anni, ha costruito una rete di informatori in tutto il paese fino in Pakistan. Saleh è l’uomo giusto, nonché l’unico possibile, per affiancare Ahmad Massoud nel tentativo di respingere l’avanzata dei talebani verso la regione e organizzare un’eventuale controffensiva nei limiti delle possibilità militari.
Al momento, secondo fonti afghane, nel Panshir sarebbero confluite molte truppe dell’esercito regolare che si sono arrese, anche se la sicurezza dell’intera provincia è garantita al 95 per cento dalle milizie locali. Adesso Ahmad Massoud chiede aiuto all’occidente che ha appena abbandonato il suo paese, e pubblica un appello sulla rivista francese La Règle du Jeu, diretta da Bernard-Henri Lévy, in cui chiede aiuto a Emmanuel Macron e alla Francia, ma soprattutto invita gli afghani dentro e fuori i confini a unirsi alla resistenza. “Popolo afghano, amici della libertà ovunque nel mondo! La tirannia trionfa in Afghanistan. Tutto è perduto?”. Massoud risponde di no. E, anche qui, segue le orme del padre. Pochi mesi prima del suo assassinio, che è stato il 9 settembre 2001, a due giorni dall’attacco al World Trade Center e al Pentagono, era andato proprio in Francia per chiedere aiuto ed era stato ricevuto all’Eliseo.
Allora non era possibile aspettarsi che l’Alleanza del nord – l’organizzazione antitalebana nata nel 1996 che riuniva diverse fazioni sotto il comando di Massoud – prendesse il posto dei talebani, ma serviva come avamposto per sostenere il progetto politico di ricostruzione dello stato afghano. Se agli inizi degli anni duemila, il comandante Massoud controllava il 10 per cento del territorio nazionale, a suo figlio Ahmad oggi ne resta molto meno. Tutto ora dipende da quanti aderiranno all’appello. Se non saranno abbastanza, se non si muoveranno in fretta, per il Panshir sarà difficile anche resistere entro i confini della provincia come enclave di libertà di questo nuovo Afghanistan. Come spiega al Foglio Bill Roggio, senior fellow della Foundation For Defense Democracy e caporedattore del Long War Journal: “Le forze del Panshir potrebbero resistere per un po’, ma non ne sono sicuro. I talebani non solo hanno un vero esercito, come ho documentato per tutti questi anni, ma ora dispongono persino delle attrezzature e delle armi americane”.