(LaPresse)

Esportare la democrazia sulle baionette non funziona

Filippo Andreatta, docente di relazioni internazionali di area dem, e le ragioni di Enrico Letta

“Sicuramente la rapidità della vittoria dei Talebani è stata sorprendente, ma l’esito era però ampiamente dato per scontato da quasi tutti gli esperti”, ragiona il professor Filippo Andreatta, docente di Relazioni internazionali all’Università di Bologna e vice presidente di Arel, il prestigioso think tank di area cattolico democratica e poi dem di cui è stato membro anche Enrico Letta. Il tema della “sorpresa”, così usato in questi giorni, non esaurisce il giudizio di Andreatta: “Già l’amministrazione Trump aveva deciso due anni fa il ritiro e negoziato a Doha con i Talebani senza nemmeno coinvolgere il governo di Kabul. Del resto, per una serie di motivi, è estremamente difficile vincere una guerra contro un’insurrezione, e anche in questo caso hanno prevalso gli insorti. Il tempo sta dalla parte degli insorti. Gli insorti vincono se non perdono, e quindi possono limitarsi a sopravvivere. Il governo che li contrasta e i suoi eventuali alleati esterni invece perdono se non vincono, perché ogni giorno che passa la loro legittimità viene erosa. In secondo luogo, gli insorti hanno un vantaggio strutturale in termini di intelligence. E’ molto più facile penetrare un’organizzazione governativa, anche estera in qualità ad esempio di interprete, che una organizzazione segreta. In terzo luogo, le insurrezioni sono molto difficili da battere per le democrazie. Da un lato, l’opinione pubblica prima o poi chiederà il rientro dei propri soldati. Dall’altro lato, agli eserciti democratici sono precluse tattiche brutali che invece possono essere utilizzate senza scrupoli dagli insorti, che quindi incutono più timore nella popolazione”. 

Seguendo la sua analisi, si potrebbe giungere alla conclusione che gli Stati Uniti hanno sbagliato a intervenire in Afganistan. Un po’ la stessa cosa che ha sinteticamente detto anche Enrico Letta. E’ così? “Non dico assolutamente questo, anzi. L’obiettivo originale era quello di colpire Al Qaeda dopo l’11 Settembre, e rimuovere il governo talebano che l’aveva protetta. Questo è stato fatto con successo e con un impegno di risorse piuttosto limitato. I problemi sono venuti dopo, quando dopo qualche anno i talebani si sono riorganizzati e hanno lanciato una campagna insurrezionale. A quel punto, come in Iraq, l’obiettivo dell’intervento è diventato quello di democratizzare il paese come antidoto all’estremismo, e sono cominciati i guai”. Ma l’esportazione della democrazia, come ha ribadito Giuliano Ferrara sul Foglio mercoledì scorso, in polemica con Letta, non è un fine nobile per l’occidente? “Nobile ma utopistico. Come ha affermato l’altro ieri, tra gli altri, Enrico Letta, la democrazia non si esporta con le baionette non perché la democratizzazione non sia un fine nobile, ma perché la democratizzazione imposta non funziona. Con le armi è molto più facile esportare una dittatura, perché questa si basa appunto su una imposizione, come hanno provato la Germania nazista con i suoi regimi fantoccio durante la Seconda guerra mondiale e l’Unione Sovietica durante la guerra fredda”. Un dibattito storico-teorico enorme, cui il professor Andreatta aveva dedicato un libro, ben prima della presente crisi (“Alla ricerca dell’ordine mondiale. L’Occidente di fronte alla guerra”, Il Mulino, 2004). Ora spiega: “Dei circa 30-40 interventi per imporre la democrazia dal 1900 ad oggi, solo pochissimi hanno avuto successo, tra i quali le potenze dell’asse all’indomani della seconda guerra mondiale e, più recentemente Panama dopo la dittatura di Noriega”.

Non vale comunque la pena di provare? “Il punto è che i pochi successi si riferiscono a ‘ri-esportazioni’ della democrazia, nel senso che in tutti i casi si trattava di paesi che erano già stati democrazie, come ad esempio la Germania di Weimar, e quindi avevano dato prova di avere i requisiti economici, politici e sociali per quel tipo di regime. Laddove l’intervento ha riguardato un paese che non era mai stato democratico in precedenza, il tasso di successo è zero. Del resto, se una società non si è dimostrata pronta, o perché il tasso di modernità è basso, o perché le divisioni identitarie sono troppo profonde, questi ostacoli non possono essere rimossi con la forza dall’esterno. Purtroppo, come ci dimostra anche il caso libico, se rimuovere un dittatore può risultare abbastanza facile, questo non è per nulla sufficiente a far nascere una democrazia, che richiede sofisticate e complesse precondizioni politiche, ma anche sociali ed economiche. Se quindi è sacrosanto difendere la democrazia dove ha attecchito, come ha scritto oggi Giuliano Ferrara ricordando lo sbarco in Normandia, esportare la democrazia in paesi non democratici rischia di essere un’utopia”.

Ora però c’è un enorme problema in Afghanistan. “Ora bisogna fare il possibile per impedire una catastrofe umanitaria. Bisogna consentire alle persone più esposte e vulnerabili di poter scappare dal regime talebano, e bisogna incentivare il regime a non esagerare nelle violazioni dei diritti umani. Non facciamoci però eccessive illusioni: se l’occidente non è riuscito a fermare i Talebani con la propria massiccia presenza militare ed economica, ora che si è ritirato gli strumenti a sua disposizione sono limitati”.  Che significato ha questa debacle sul sistema internazionale? “Credo che confermi che ci troviamo in un sistema internazionale molto diverso da quello seguito alla fine della guerra fredda. Per 20 anni dopo il crollo del muro di Berlino gli Stati Uniti non avevano rivali e l’opinione pubblica americana era disposta a pagare i costi della leadership mondiale, con un certo supporto degli altri paesi occidentali. Ora i rivali dell’occidente - Russia e Cina in testa - stanno crescendo, mentre l’opinione pubblica è assorbita dai problemi economici e sanitari e non sembra disposta a rischiare le vite dei propri soldati in guerre lontane. In altre parole ci troviamo oggi in un sistema multipolare, che è molto più fluido e instabile sia di quello bipolare della guerra fredda, sia di quello unipolare che è durato fino alla presidenza Obama”.

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