Le guerre dei Sulzberger
New York Times, 170 anni di storia con molti scoop e alcuni scivoloni. E una famiglia sola al comando, oggi delusa da Biden
La disfida per la conquista dell’opinione pubblica in America e in gran parte dell’Occidente vede oggi in lizza tre campioni: a destra c’è Rupert Murdoch con Fox News e il Wall Street Journal; a sinistra Jeff Bezos con il Washington Post trasformato nella bandiera anti-trumpiana (“La democrazia muore nel buio” è scritto sotto la testata dal febbraio 2017, non appena The Donald aveva preso possesso della Casa Bianca); e poi c’è il New York Times, già voce della intellighenzia liberal della costa orientale e diventato un’istituzione, un pilastro del sistema, ancora nelle mani della famiglia Sulzberger intenzionata a difenderlo a tutti i costi contro mille insidie, la più seria delle quali viene, qui più che altrove, dalla rivoluzione digitale.
Ora che gli Stati Uniti fanno i conti con una nuova cocente disfatta, mentre Joe Biden rischia di finire come Jimmy Carter travolto dalla controrivoluzione khomeinista in Iran nel 1979, il New York Times si trova spiazzato. La profonda delusione irrompe nell’editoriale pubblicato il giorno di Ferragosto sotto il titolo “La tragedia dell’Afghanistan”. Una storia “indicibilmente tragica, tre volte tragica” scrive il commento attribuito al direttore Dean Baquet, il primo afro-americano a sedere sulla prestigiosa poltrona, che esprime anche la linea dell’editore. I Sulzberger del resto sono sempre stati più che proprietari, spesso hanno fatto loro, materialmente, il giornale. Val la pena ripercorrere le amare righe: “E’ tragica perché il sogno americano di essere la ‘nazione indispensabile’ nel trasformare il mondo così che sia governato dai valori dei diritti civili, dell’emancipazione femminile e della tolleranza religiosa, si dimostra solo un sogno. E’ tragica per la certezza che molti degli afghani che hanno lavorato con gli americani e creduto a quel sogno sono stati lasciati alla mercé di un nemico spietato. E’ tragica anche perché con l’aspra divisione politica dell’America odierna gli sforzi di trarre lezioni critiche da questa calamitosa sconfitta sono già invischiati in rabbiose recriminazioni… a poche ore dalla caduta di Kabul i coltelli sono già fuori”. Hanno ancora senso quei nomi in codice Libertà duratura (Enduring Freedom) e Operazione sentinella della libertà, si chiede l’editoriale e conclude: la guerra doveva finire, ma non così.
Roger Cohen, il giornalista di origine inglese già corrispondente a Roma per il Wall Street Journal negli anni 80 prima di essere assunto dal New York Times dove è stato inviato speciale, capo degli esteri, editorialista, ha scritto un aspro articolo citando Biden: “L’America è tornata, è stato il refrain. Ma la questione da porsi adesso sarà: per fare cosa?”. Ed ecco una lunga inchiesta su come il presidente ha rifiutato di dare ascolto ai rapporti dell’intelligence che mettevano in guardia dai rischi di una clamorosa débacle. Il NY Times non può tradire la missione scritta nel suo motto: “Tutte le notizie che val la pena stampare” (o cliccare come oggi viene riadattato per l’edizione online), men che meno nei momenti più tragici. E ce ne sono stati in questi 170 anni di storia attraversati con molti scoop e alcuni seri scivoloni.
Quando il 18 settembre 1851 apparve per la prima volta il New York Daily News, i fondatori Henry Jarvis Raymond e George Jones scrissero un’epigrafe per i contemporanei e per i posteri: “Pubblichiamo oggi la prima edizione del giornale e intendiamo farlo uscire ogni mattina, a parte la domenica, per un indefinito numero di anni futuri”. Una promessa di durata, un giuramento di permanenza che sarebbe stato rispettato e che Arthur Gregg Sulzberger, 41 anni, l’ultimo erede al comando, ha intenzione di mantenere nonostante tutto e tutti. Raymond era un giornalista, Jones un banchiere, notizie e affari, sembrava l’accoppiata vincente, perché l’indipendenza è legata al buon risultato economico, ma durò poco: nel 1896 il quotidiano venne acquistato da Adolph Simon Ochs il quale lo consegnerà ai suoi discendenti già forte e autorevole.
A. S. Ochs era nato il 12 marzo 1858 a Cincinnati, Ohio, da una famiglia ebrea. I genitori erano immigrati tedeschi. Suo padre Julius aveva lasciato la Baviera per gli Stati Uniti nel 1846, era un uomo altamente istruito e fluente in sei lingue che insegnava nelle scuole di tutto il Sud, sebbene sostenesse l’Unione, cioè il Nord, durante la Guerra civile. La madre Bertha Levy era venuta negli Stati Uniti nel 1848 come rifugiata dalla rivoluzione liberale e aveva vissuto nel Sud prima del suo matrimonio celebrato nel 1853, simpatizzando per i Confederati. L’amore del piccolo Adolph per i giornali cominciò mentre li distribuiva per le case prima di andare a scuola. A 19 anni si fece dare dal padre 250 dollari, una cifra non male a quei tempi, e acquistò un pacchetto azionario del Chattanooga Times diventando poi il suo editore. Un anno dopo debuttò nella stampa economica con il New Tradesman e fu un successo, tanto che nel 1896 decise di comprare il New York Times che aveva perduto il Daily e non navigava in buone acque. Prese in prestito 75 mila dollari, fondò un’impresa come si deve con solide basi finanziarie e cominciò la sua navigazione nel grande mare dell’informazione. Nel 1884 aveva sposato Effie Wise, la figlia del rabbino Isaac Mayer Wise di Cincinnati, principale esponente del giudaismo riformato in America e fondatore dello Hebrew Union College. La loro unica figlia, Iphigene Bertha Ochs, venne impalmata da Arthur Hays Sulzberger che diventò editore del Times dopo la morte di Adolph. Nacque così la dinastia Ochs Sulzberger arrivata alla quinta generazione senza mai mollare.
Gli inizi non furono entusiasmanti, i lettori erano appena settemila e crescevano lentamente finché il giornale non imboccò due strade mai battute prima: abbassare il prezzo da tre a un dollaro e scegliere una linea editoriale non partigiana nel momento in cui tutta la stampa era faziosa, gridata, ossessionata dalla notizia scandalistica, meglio ancora se inventata. Ciò non vuol dire che il NY Times non si schierasse: apertamente favorevole ai Democrats fin dall’inizio (quando ancora il partito scontava le sue radici del Sud), impegnato nella battaglia contro l’antisemitismo, attivo nella Lega anti diffamazione, Ochs divenne protagonista della vita pubblica, politica e culturale pubblicando un supplemento dedicato a libri, The New York Times Review and Magazine, che diventerà la bibbia della cultura liberal. I suoi acerrimi concorrenti erano il conservatore New York Herald che assunse Walter Lippmann, il guru del giornalismo americano, e il New York Tribune: nel 1922 si fusero creando la Herald Tribune che quasi un secolo dopo, nel 2013 diventerà il New York Times International Edition.
Fin dai primi passi Ochs aveva in mente un quotidiano rispettato internazionalmente, senza nessuna visione parrocchiale, nessun cedimento al luogo comune secondo il quale ai lettori interessa solo quel che accade nel cortile di casa, aiutato in questo da Carr Van Anda assunto dal New York Sun e messo a dirigere il giornale, una posizione che non mollò fino al 1932. Colto quanto puntiglioso, fluente persino in geroglifici, si assicurò l’esclusiva per l’apertura della tomba di Tutankhamen nel 1923 e fece scalpore quando corresse alcuni errori di calcolo niente meno che a Albert Einstein in un discorso poi pubblicato. Il suo primo grande colpo fu la storia del Titanic nel 1912: Van Anda (si firmava V.A.) capì che il transatlantico era affondato mentre gli altri ancora scrivevano che aveva avuto problemi nella collisione con un iceberg. Il fiuto, la prima dote di un giornalista. La copertura della Seconda guerra mondiale e dei principali avvenimenti a cominciare dal conflitto in Vietnam hanno poi segnato successi inarrivati e forse inarrivabili.
Nel 1971 il giornale finisce al centro di una controversia che riguarda i cosiddetti Pentagon Papers. Un ex funzionario del Dipartimento di stato, Daniel Ellsberg, consegna a Neil Sheehan del New York Times un rapporto contenente la storia segreta del coinvolgimento americano in Vietnam dal 1945 al 1967. Scoppia il finimondo: “Mandate in galera quel figlio di puttana” grida il presidente Richard Nixon a Henry Kissinger, suo consigliere per la Sicurezza nazionale. Ma la pubblicazione continua giorno dopo giorno e si accoda anche il Washington Post che aveva ottenuto altre copie del rapporto. Finisce tutto alla Corte suprema che dà torto al governo, con una decisione sofferta, sei voti a favore e tre contro, tanto che ogni giudice vuole distinguersi scrivendo la propria argomentazione in punta di diritto. Il Primo emendamento alla Costituzione, che sancisce la libertà di parola e di stampa, ha vinto, ma su questioni di sicurezza nazionale la controversia rimane aperta e si è riproposta in quello che venne chiamata il Cia-gate.
Il 28 gennaio 2003 nel discorso sullo stato dell’Unione, il presidente George W. Bush afferma che “il governo britannico ha appreso che Saddam Hussein ha cercato di ottenere significative quantità di uranio yellowcake dall’Africa”, dunque il dittatore nasconde armi di distruzione di massa. Il 19 marzo gli Usa invadono l’Iraq, tre mesi dopo il Washington Post rivela la missione di un “ex diplomatico” in Niger per conto della Cia. Il vicepresidente Dick Cheney chiede informazioni a Langley, poi comunica al suo capo dello staff Lewis Libby detto Scooter che si tratta di Joe Wilson e sua moglie, Valerie Plame, è una spia. Libby ne parla a Judith Miller del New York Times fornendo la sua versione, ma Wilson esce allo scoperto sulle pagine dello stesso giornale: non ha mai trovato armi di distruzione di massa. Il Dipartimento della Giustizia apre un’inchiesta e dopo mesi di contese legali si arriva alla Corte suprema. Dei tre giornalisti che si erano occupati del caso, Matt Cooper di Time, Robert Novak del Washington Post e Judith Miller del NY Times, solo quest’ultima rifiuta di rivelare la sua fonte e finisce in cella per aver violato la legge sulla sicurezza nazionale. I vertici del quotidiano la sostengono, sia l’editore Arthur Ochs Sulzberger Junior sia il direttore Bill Keller, evocando il Primo emendamento, ma mai prima si erano preoccupati del troppo stretto legame tra la giornalista e il suo importante informatore. Quando Judith Miller esce di prigione, Sulzberger le offre una succulenta cena e una camera in un hotel di lusso, ma non di ritornare al giornale.
E’ stato un pessimo anno quel 2003 in cui il NY Times ha dovuto persino chiedere scusa per le notizie inventate da un suo cronista, Jayson Blair. Il giornale non è più “la vecchia signora in grigio”, grazie all’impulso proprio di Arthur Ochs Sulzberger Jr. che aveva preso le redini nel 1992 dal padre conosciuto da tutti con il soprannome Punch. Durante la sua gestione il giornale ha superato il milione di copie, il sito internet aperto nel 1996 è diventato il più trafficato, ha assorbito il Boston Globe acquistato nel 1993 a caro prezzo, per 1,1 miliardi di dollari, ha aperto la nuova sede a Manhattan progettata da Renzo Piano, ha preso il 100 per cento dell’International Herald Tribune liquidando il Washington Post, è rimasto ostinatamente concentrato sui giornali, anche se, secondo molti, la sua forza è diventata una debolezza nell’era della comunicazione trasversale e globale. “L’informazione, questa è la nostra missione”, ripete Arthur Jr. (egli stesso si era fatto le ossa come cronista fuori dall’azienda di famiglia, prima al Raleigh Times poi all’Associated Press), e non ha mai voluto creare un gruppo editoriale come gli altri. Ha detto un banchiere d’affari che conosce bene i Sulzberger a Ken Auletta del New Yorker, uno dei migliori giornalisti esperti di media: “La virtù di una impresa familiare è che può avere lo sguardo lungo, il rischio è che non c’è nessuna disciplina esterna che costringa a operare in modo efficiente. Arthur, a suo credito, tiene molto al giornalismo, ma gli manca la passione per gli affari”.
Viene al pettine una debolezza finanziaria che esplode in una crisi aperta nel 2009 dopo il crac dei mutui subprime. L’editore si fa prestare 250 milioni di dollari da Carlos Slim il magnate messicano delle telecomunicazioni con un patrimonio stimato in 80 miliardi di dollari, il quale quattro ani dopo diventa il primo azionista con il 16,8 per cento. Il prestito è stato restituito nel 2011, però Slim aveva mantenuto una opzione a comprare. La vecchia dinastia giunge al tramonto? Il controllo azionario è in bilico, ma non in vero pericolo, grazie all’escamotage delle azioni di classe A e B. Le prime permettono di incassare dividendi e avere voce in capitolo nella nomina dei membri del consiglio di amministrazione, tuttavia forniscono un potere decisionale molto inferiore rispetto ai possessori delle azioni di classe B, l’88 per cento delle quali sono nel portafoglio della famiglia Ochs-Sulzberger. Bloccata l’operazione, negli anni successivi Slim rivende parte della sua quota con un buon guadagno perché nel frattempo i conti sono migliorati.
Nel dicembre 2017 Arthur passa il testimone al figlio Arthur Gregg (A. G.), che dopo la laurea in Scienze politiche era stato introdotto ai segreti del mestiere lavorando da cronista al Providence Journal, quotidiano del Rhode Island. Il battesimo del fuoco come editore, ma anche come giornalista, è l’incontro con Donald Trump alla Casa Bianca il 20 luglio 2018. Doveva essere riservato, però The Donald non si trattiene e twitta a modo suo. Sulzberger reagisce e rivela la propria versione: “Ho detto al presidente che il suo linguaggio incendiario contro la stampa contribuisce ad aumentare le minacce ai giornalisti e conduce alla violenza”. Il 31 gennaio 2019 A. G. entra di nuovo nell’ufficio ovale, ma questa volta insieme a due giornalisti per una intervista on the record che apparirà in prima pagina. E’ l’ulteriore conferma che al New York Times da sempre l’editore lavora fianco a fianco con il direttore, al punto che talvolta i ruoli si confondono e tuttavia si presenta come paladino di una stampa indipendente che “non è un ideale liberal, progressista o del Partito democratico. E’ un ideale americano”. A. G. Sulzberger l’ha detto alla Cnn. Ai lettori l’ardua sentenza.
I precedenti articoli della serie Editori, su Rupert Murdoch e Axel Springer, sono stati pubblicati sul Foglio il 7 e il 14 agosto.