Biden e la lezione dimenticata del presidente Truman
L’isolazionismo del nuovo presidente degli Stati Uniti è l’antitesi perdente della strategia che portò a Yalta e poi alla Guerra fredda. E finché non si troverà un’alternativa all’atlantismo sarà meglio dare una ripassata alla dottrina Truman
Harry S. Truman (1884-1972) era un uomo dell’Ottocento nutrito della tremenda politica di guerra del Novecento, un terragno arnese dell’apparato del Partito democratico, un midwesterner capace di una impressionante gavetta personale e politica, uno dei pochi presidenti (1945-1953) non laureati su 33, un populista nei modi e nell’oratoria che Trump gli fa un baffo, ma democratico e a suo modo iperpresidenziale, uno che decise nell’agosto del 1945 di sganciare due atomiche sul Giappone per indurlo alla resa immediata evitando centinaia di migliaia di vittime della guerra da ambo le parti (decisione che sempre difese con argomenti di tragica semplicità), uno che a un tizio che aveva sparlato di sua figlia scrisse da presidente una lettera per informarlo che se lo avesse incontrato avrebbe dovuto procurarsi un nuovo naso, uno che giocava a poker, beveva bourbon, detestava gli intellettuali, fu per alcun tempo la bestia nera dei sindacati, contava solo sulla lealtà degli altri e offriva la propria in un’attitudine spiccia mutuata dalla sua milizia nel sistema Pendergast, dal nome del suo mallevadore politico finito in disgrazia tra l’altro per evasione fiscale.
Però gli accadde questo, atomica a parte, se così si può dire. Fu presidente nel Victory in Europe Day, l’8 maggio del 1945; incontrò Stalin e Churchill a Potsdam e stampigliò l’ultimo timbro sul mondo di Yalta; presiedette sulla Guerra fredda alle origini; varò e realizzò il Piano Marshall per la ricostruzione dell’Europa occidentale; promosse l’Onu; creò la Nato, la Cia e la Nsa dell’intelligence che furono il fulcro della dottrina Truman di contenimento del comunismo arrembante in nome del mondo libero, come si diceva allora; attuò con sprezzo del pericolo le prime leggi integrazioniste dell’apparato federale e dell’esercito; si oppose al blocco sovietico di Berlino con il ponte aereo che per mesi mantenne in vita il settore occidentale della città, occupato dagli altri vincitori della guerra mondiale, un esperimento militare e logistico mai tentato prima; evitò la recessione postbellica e sovrintese a un incredibile periodo di boom economico; rispose con la guerra di Corea all’invasione di Kim il Sung dal nord, la vinse e poi decise il licenziamento del generale McArthur, vincitore sul campo, e un armistizio di compromesso dopo che i cinesi gli mandarono contro un milione di soldati e i sovietici si apprestarono a un contrattacco, preferendo l’equilibrio del 38esimo parallelo all’escalation; oscillò sempre tra trionfo e discredito politico nei sondaggi (solo lui e Nixon arrivarono a un certo punto al misero 22 per cento di approval).
Anche i più giovani tra noi, che sanno niente di questa formidabile epopea, che potrebbero scambiare il “complesso militare-industriale” per una banda rap, sono figli di questa storia e a queste durezze bestiali devono le libertà di cui godono, periclitanti nel mondo del dopo Kabul e di molti altri “dopo” dell’ultimo periodo. Non credo che Truman si sia mai nemmeno posto il problema del significato di una formula come l’esportazione della democrazia, e il suo internazionalismo ultrawilsoniano, la sua detestazione per gli spiriti meschini dell’isolazionismo, crearono in una logica necessariamente imperiale l’ordine mondiale dell’America First, quella vera.
Ora si dice, anche giustamente, che Joe Biden, tirando le somme messe in colonna dalla presidenza Obama-Biden, ma con un di più di schietto provincialismo politico, ha liquidato quel mondo della dottrina Truman, incurante di quello che appare un fallimento strategico di portata storica, e che per questo si sta facendo molti nemici tra le teste d’uovo e i generali e i banchieri del complesso militare-industriale e del vecchio establishment uscito dalla vittoria nella Guerra fredda. Gli ultimi epigoni di quell’establishment, nella corrente realista di Bush padre e in quella dei neoconservatori, più avventurosi e visionari, insieme con Bill Clinton, hanno in effetti i capelli ritti di fronte a quello che succede in Afghanistan, alla sostanza ai modi della sconfitta.
Presumibile sappiano che Truman è appartenuto a un’altra epoca, che dietro l’occidente oggi c’è la rotta di Saigon, il 1968, il trionfo della correctness, il mondo del multilateralismo Verde e di una globalizzazione senza palle, l’involuzione narcisista e parafascista del vecchio populismo della politica corazzata e del coraggio civile internazionalista; si domandano però, domanda legittima da vecchi signori che hanno ancora qualcosa da dire, con che cosa si possano sostituire la Nato boccheggiante, l’atlantismo e la proiezione offensiva dell’America nel mondo, anche in funzione difensiva a fronte dell’islam politico, della Cina e della Russia di Putin. Finché non sarà dato uno straccio di risposta, e non retorica, non intellettualistica, bisogna ristudiare la biografia di Truman con meticolosa applicazione.
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