Il tramonto dell'oligarca russo
Storia della concentrazione della ricchezza in Russia in quattro atti. La nuova élite non è fatta da privati ma da uomini dello stato, artefici di una burocrazia predatoria, che vivono nel lusso. Il caso Gazprom
La narrazione sugli oligarchi dei paesi dell’ex Unione sovietica, soprattutto russi, traccia il ritratto di persone ricche in misura abnorme, circondate da donne bellissime su degli yacht giganteschi, mentre bevono dei vini che costano quanto lo stipendio annuo di un russo normale. Gli oligarchi sono però molto poco numerosi. Molto più numerosi, ma meno seguiti dai mass media, sono i russi ricchi ma non ricchissimi che hanno comprato degli immobili nelle Alpi, e che trascorrono, avendo di nuovo degli immobili, le vacanze lungo il Mediterraneo francese e italiano.
Dal che si potrebbero immaginare le abnormi ricchezze che sgorgano dall’immensità della Santa Russia e che rendono felice il suo popolo e molto felice una sua parte. Ma non è così. L’economia russa ha all’incirca la dimensione di quella italiana, con i russi che sono più del doppio. Il loro reddito pro capite non può che essere meno della metà. Mettendo a confronto le grandi spese dei russi ricchi con il reddito pro capite russo, pari a circa un terzo del nostro, giungiamo alla conclusione che abbiamo a che fare con un ricchezza simile alla nostra, ma distribuita in misura più diseguale. In Russia l’uno per cento dei redditi più elevati comanda il venti per cento del reddito nazionale. Negli Stati Uniti abbiamo lo stesso rapporto. In Europa, invece, l’uno per cento comanda il dieci per cento del reddito nazionale. La Russia e gli Stati Uniti hanno lo stesso livello di diseguaglianza nella distribuzione del reddito, a sua volta pari al doppio di quello europeo.
Oligarchia russa: come nasce
La caratteristica della ricchezza russa rispetto a quella occidentale non è solo nella diseguaglianza nella distribuzione del reddito, ma anche nei luoghi dove questa ricchezza è collocata. Quella russa – attenzione: finanziaria, non immobiliare, investita all’estero nei paradisi fiscali è il cinquanta per cento della ricchezza finanziaria complessiva. Nel caso europeo abbiamo il dieci per cento, in quello statunitense il cinque per cento (fonte: Thomas Piketty, “Capital et idéologie”). La migliore spiegazione di cotanta esposizione estera della ricchezza mobiliare dei russi, ma anche dei paesi petroliferi arabi, di quelli africani, e sud americani, è che non si hanno sufficienti occasioni di investimento nel paese di origine, della cui certezza del diritto peraltro non ci si fida proprio. Svolgiamo il nastro del film all’indietro e torniamo all’Unione sovietica. Atto primo. Questa cadde per ragioni interne, non perché invasa e sconfitta. Qual è il meccanismo che spiega la sua caduta improvvisa? I governi impopolari possono rimanere al potere per periodi molto lunghi grazie all’estrema difficoltà che si ha nel rovesciarli. Chi si ribella deve affrontare i costi: dalla detenzione alla perdita della vita, necessari per rovesciare il regime. Chi si ribella non può però sapere se vi sono altri concittadini in gran numero disposti a fare lo stesso. La numerosità è necessaria per avere un qualche impatto eversivo. Non potendo sapere quale sarà il comportamento degli altri, il singolo cittadino, se è razionale e non un eroe, non farà nulla, oppure, se nessuno si comporta come lui, ma agisce lo stesso, finirà nei guai.
Se vi sono questi meccanismi che trattengono l’azione eversiva, perché cadono i regimi tirannici? L’autocrate ha potere perché controlla la macchina dello stato. Se i membri della macchina – funzionari pubblici, poliziotti, esercito – pensano che l’autocrate sia invincibile e che possa distribuire dei benefici, eseguiranno i suoi ordini. (Come avviene oggi in Bielorussia con gli appartamenti dati ai poliziotti per premiare la loro lealtà). Se, invece, pensano che non sia invincibile e ricco abbastanza per distribuire, non lo eseguono, e il regime si sfalda. Diventare ribelle a quel punto non costa più la detenzione oppure la vita. Ecco allora che l’impopolarità del regime emerge a ondate successive. (Come avvenuto nella Repubblica democratica tedesca). In breve, il regime cade perché viene meno la paura della macchina repressiva. Se poi abbiamo a che fare con una federazione, come nel caso sovietico, a ribellarsi al potere centrale saranno anche, perché vogliosi di usufruire dei vantaggi dell’autonomia, i governatori con i loro apparati (fonte: Mancur Olson, “La logica dell’azione collettiva in società di tipo sovietico”).
Svolgiamo il nastro del film all’indietro e torniamo ancora all’Unione sovietica. Atto secondo. Il socialismo era un’economia pianificata – per inciso, mancando gli imprenditori privati non era possibile sfruttare tutte le occasioni per innovare che si presentavano. La decisione finale era, infatti, centrale – in capo al Comitato statale per la pianificazione, il Gosplan, e quindi macchinosa sia da raggiungere sia da mettere in atto. La proprietà privata dei mezzi di produzione era assente – per inciso, mancando la proprietà privata dei mezzi di produzione mancava l’apparato legale che consente ai privati di lavorare con certezza di diritto. Lo sviluppo industriale sovietico, infine, era volto, con correzioni, dai tempi di Stalin, ad accumulare capitale nell’industria pesante – nelle infrastrutture, negli armamenti, piuttosto che in quella leggera – nei beni di consumo.
Fino agli anni Settanta la concentrazione delle risorse negli investimenti aveva spinto lo sviluppo economico. Da un certo punto in poi il sistema era diventato stagnante – ciò nonostante era riuscito a migliorare il tenore di vita della popolazione grazie all’esportazione di materie prime energetiche, che avevano visto crescere in quegli anni il loro prezzo. Superata la prima industrializzazione, quella degli anni Trenta, dove era rilevante l’efficacia ma non l’efficienza del sistema, come avvenuto con l’espropriazione violenta del surplus agricolo dell’Ucraina per alimentare le città che si stavano industrializzando, ecco che diventa prioritaria oltre all’efficacia anche l’efficienza del sistema. Gli sprechi – finita la fase della modernizzazione e della ricerca della potenza militare – non potevano più essere occultati dietro la gigantesca accumulazione di capitale delle industrie pesanti. Con queste ultime che, mancando degli incentivi legati all’iniziativa privata, non erano in grado di innovare, e restavano ancorate alle tecnologie della loro prima industrializzazione.
Svolgiamo il nastro del film all’indietro e torniamo ancora all’Unione sovietica. Atto terzo. Abbiamo avuto il crollo improvviso del regime insieme a un’economia stagnante, perché arretrata tecnologicamente e concentrata nell’industria pesante. Infine, non avevamo un corpo legale che sottendesse l’attività economica privata. E qui entrano finalmente in scena gli oligarchi.
Gli oligarchi russi ed ucraini non sono, come può sembrare, una novità nelle vicende umane. Negli Stati Uniti si avevano delle figure equivalenti dal XIX secolo fino agli inizi del XX. L’etichetta affibbiata era robber barons in ricordo di chi, cavaliere medioevale asserragliato nel castello, estorceva del denaro per consentire il passaggio ai mercanti lungo il Reno. La ricchezza dei primi oligarchi dell’ex Urss era concentrata soprattutto nella manifattura dei metalli, nel petrolio (poi rinazionalizzato). Non vi sono stati né vi sono degli oligarchi nel campo del gas (mai privatizzato). I primi oligarchi russi erano dei ricercatori universitari brillanti che poi, ancora giovani, hanno conquistato il potere economico. I robber barons statunitensi – Rockefeller, Carnegie – traevano la propria ricchezza dai metalli, dal petrolio, dalle ferrovie.
Nel caso degli oligarchi ex sovietici e statunitensi abbiamo dei tratti comuni: 1) i loro settori operavano e operano in mercati immensi, così potendo sfruttare le economie di scala delle imprese controllate; 2) si avevano le opportunità aperte dopo un grande mutamento: la caduta dell’URSS e la fine della Guerra Civile; 3) le caratteristiche della ricchezza che scaturisce dalle rendite, ossia dai sovra-profitti che si hanno in regime di semimonopolio; 4) l’origine pubblica e il modesto prezzo pagato per i beni acquisiti – nel caso sovietico le imprese statali, nel caso statunitense i terreni che affiancavano le ferrovie; e, infine, 5) l’assenza di un regime legale in grado di difendere i diritti di proprietà; per evitare il contenzioso che non si poteva sapere come potesse finire, le imprese ex Urss di oggi e quelle statunitensi del passato preferivano integrare quante più attività possibili all’interno dello stesso conglomerato; ed ecco una delle ragioni del gigantismo (fonte: Ander Aslund, “How Capitalism was built. The Trasformation of Central and Eastern Europe, Russia, and Central Asia”). Gli oligarchi russi controllano delle quote molto importanti nei diversi settori in cui operano. I quali sommati sono una parte cospicua dell’economia. Sorgono due quesiti. La imprese degli oligarchi sono più efficienti di quelle statali? La concentrazione del potere economico russo è anomala?
Non è semplice sapere se le imprese degli oligarchi siano più o meno efficienti di quelle rimaste statali. Si possono avere, infatti, delle sovrapposizioni temporali. Gli oligarchi acquisiscono un’impresa statale, e per tutto il tempo necessario alla ristrutturazione, questa resta relativamente inefficiente, ma intanto è contabilizzata nell’aggregato privato, con ciò peggiorandone i risultati. In ogni modo, le imprese degli oligarchi sembrano essere più efficienti (fonte: Sergei Guriev, Andrei Rachinsky, “The role of Oligarchs in Russian Capitalism”).
Non è semplice sapere se la concentrazione della ricchezza in Russia sia anomala rispetto a quella di altri paesi. In Italia si avevano le scatole cinesi, ossia un’impresa che controllava un’altra impresa che ne controllava un’altra. Il controllo della cascata si aveva con quote modeste di azioni dei proprietari di riferimento, perché l’azionariato era disperso nelle diverse scatole e quindi non poteva organizzarsi per avere un interesse comune. Se il controllo degli oligarchi russi non avviene con delle quote modeste di società a cascata, ma con quote cospicue in una sola impresa, ecco che avranno bisogno di un maggior investimento finanziario e dunque risulteranno più ricchi. Ossia, dovranno, a differenza degli italiani, avere investito una maggiore ricchezza per unità di controllo. La concentrazione della ricchezza in Europa, dove si hanno ancora le grandi famiglie imprenditoriali, è elevata ma inferiore a quella russa; la concentrazione della ricchezza nei paesi anglosassoni è inferiore a quella russa ed europea, per la maggior presenza dei fondi pensione che hanno, ma in parte, sostituito le grandi famiglie imprenditoriali.
Svolgiamo il nastro del film all’indietro e torniamo non più all’Unione sovietica, ma alla Russia di Boris Eltsin e di Vladimir Putin. Atto quarto. Si hanno due correnti di pensiero. Quelli che considerano gli oligarchi il motore della ripresa economica che si è avuta dopo la caduta dell’Urss, perché sono i soli che possono permettersi di investire e ristrutturare le industrie. Sempre secondo questa corrente di pensiero gli oligarchi sono il solo contrappeso alla burocrazia predatoria. Per altri, all’opposto, gli oligarchi hanno indebolito l’economia privatizzando le imprese a prezzi stracciati. Infine, inviando il loro denaro all’estero, gli oligarchi mostrano il loro scarso patriottismo. Secondo questa seconda corrente di pensiero, la burocrazia predatoria non avrebbe un ruolo. Invece, non è così.
Negli ultimi tempi dell’Urss – verso la fine degli anni Ottanta, divenne possibile intraprendere delle attività private di dimensioni limitate, organizzate in cooperative. Il loro campo era il settore dei consumi. I primi oligarchi iniziarono da lì, in campo commerciale, quindi senza alcuna presenza industriale. Qualche anno dopo, a metà degli anni Novanta, il loro campo di intervento si ampliò. L’acquisto delle attività produttive statali avvenne attraverso: 1) l’acquisto diretto di queste attività; 2) attraverso l’acquisto con lo schema dei loans-for-shares, ossia gli acquirenti delle imprese compravano le imprese dal governo grazie ai crediti accesi dalle banche; 3) attraverso l’accumulazione del diritto di acquisto delle attività industriali sovietiche con i voucher – i buoni distribuiti a tutta la popolazione, che poteva così dividere come meglio credeva i beni che nel socialismo erano di tutti.
Queste sono le gesta degli oligarchi della prima ora. Appena dopo il proprio arrivo alla presidenza, quindi nei primi mesi del 2000, Putin annuncia che gli oligarchi erano liberi di agire come meglio credevano alla sola condizione che pagassero le imposte e non usassero il potere che traeva origine dalla loro ricchezza per ingerirsi nella vita politica. Nella lotta politica in Russia gli oligarchi della prima ora, a distanza di oltre un decennio, sono passati in secondo piano. Svolgono le proprie attività, ma non sono più un problema maggiore per l’economia e il potere politico. Al loro posto si ha la burocrazia predatoria. Una burocrazia legata all’amministrazione sia centrale sia periferica, e alle imprese non privatizzate. Quindi al posto degli oligarchi vi sono degli interessi che sono molto più vicini al potere politico.
Gazprom: l'azienda immensa ma a controllo statale
La Fondazione per la lotta alla corruzione di Alexei Navalny svolge indagini sulla corruzione, indagini che che si trovano su YouTube (sottotitolati in inglese). Queste indagini mostrano come la burocrazia abbia un tenore di vita, ma soprattutto un volume di investimenti immobiliari all’interno e all’estero inspiegabile sulla base del loro reddito ufficiale. Oltre agli investimenti esteri, accade che la burocrazia preferisca che le proprie famiglie vivano e studino all’estero. Insomma, la burocrazia non ha fiducia nel paese di cui è l’anima amministrativa.
Esiste un caso che consente di chiarire quanto detto finora sulle vicende russe senza gli oligarchi? Nei limiti di un solo caso, e con tutte le cautele, si può (fonte: Sberbank, Russian Oil and Gas). Gazprom è una impresa immensa – le sue riserve sono inferiori soltanto a quelle dell’Arabia Saudita e dell’Iran. E’ quotata in borsa, ma è a controllo statale. Che cosa accadrebbe se Gazprom fosse indipendente da ogni potere politico? Gazprom in un mondo senza potere politico, quindi senza gli interessi che si muovono intorno alle sue immense commesse per costruire gasdotti, gasdotti che sono costruiti su indicazione del potere politico che persegue le proprie strategie internazionali, come sarebbe? Non costruirebbe gli immensi gasdotti che saltano l’Ucraina attraversando il Mar Nero e il Mar Baltico, e non li costruirebbe attraverso gare d’appalto che vedono la partecipazione delle sole imprese russe “amiche”. Si possono fare dei conti di massima. Il risultato è che, investendo solo l’economicamente necessario e con gare d’appalto aperte, Gazprom sarebbe una miniera d’oro. Ma sarebbe una miniera d’oro per chi non fa parte della coalizione al potere. Per chi fa parte della coalizione al potere lo è già. Gli analisti della statale Sberbank che avevano svelato questo meccanismo sono stati licenziati il giorno dopo. L’oligarca che sguazza nel lusso dopo aver corrotto lo stato appartiene ormai in buona parte a un mito tramontato. Oggi sono gli uomini dello stato i “nuovi oligarchi”, che trasformano il loro potere in yacht e chalet svizzeri.