Khasha Zwan, in morte di un comico

Saverio Raimondo

Sarebbe bello sfuggire da ogni retorica, a cominciare da quella dei “martiri della satira”. In occidente non si muore di censura, in Afghanistan sì. E non è un modo di dire

Nazar Mohammed in arte Khasha Zwan, attivo in Afghanistan come comico (c’è chi dice lo fosse anche come membro della polizia nazionale afghana dedita a torture e corruzione, ma c’è anche chi dice che queste voci siano la macchina del fango del nuovo regime), è morto due volte: la prima per mano talebana, i quali lo hanno giustiziato proprio a causa delle sue battute irriverenti contro di loro e che non ha mai smesso di prendere in giro nemmeno durante la sua cattura ed esecuzione  (“avete i baffi sul culo” la sua ultima battuta, immortalata in un drammatico video divenuto virale). La seconda per mano nostra, che abbiamo preso la sua ironia e l’abbiamo affogata nella retorica.

 

“Ecco come muore un comico”, ha puntualmente scritto qualcuno celebrando il “coraggio” di Khasha Zwan “che ride in faccia ai suoi assassini”; in realtà i comici muoiono in tanti modi diversi esattamente come tutti (Paolo Villaggio, Charlie Chaplin e Groucho Marx per esempio sono banalmente morti di vecchiaia ma ciò non significa che non fossero comici divertentissimi), e l’essere coraggiosi non è certo prerogativa del comico – il comico semmai è proprio un prodotto della vigliaccheria umana, che non consentendo ai codardi di esprimere la propria aggressività li porta a sviluppare l’arguzia con cui sublimarla. Sempre poi che quella battuta Khasha Zwan l’abbia pronunciata per coraggio e non piuttosto per “deformazione professionale”, per quel sarcasmo compulsivo tipico dei social network che dell’umorismo conserva la facciata ma ne ha smarrito il cuore.

“La potenza anarchica dell’ironia” (cit. Roberto Saviano, che ha segnalato il caso di Khasha Zwan all’opinione pubblica italiana) è tale solo se sfugge da ogni retorica, a cominciare da quella dei “martiri della satira”. Se proprio non possiamo esimerci dal trarre una riflessione su quanto accaduto al comico afghano, allora piuttosto ricaviamone un ridimensionamento dei nostri piagnistei sul politicamente corretto, sulla cancel culture, sul “non si può più dire niente”: che sì, è tutto vero, ma è sempre stato così – il gioco delle parti prevede che c’è uno che fa una battuta, qualcuno ride mentre qualcun altro si offende, e a quel punto il comico fa una battuta su chi si è offeso e gli altri di nuovo giù a ridere mentre quegli altri si offendono ancora di più, e così via; ma a differenza dell’Afghanistan qui in occidente non si muore di censura. Al massimo resti “vittima” di una shitstorm, o ti cancellano il post, o ti bannano dai social, nei casi peggiori – ma anche più rari – perdi un lavoro: sventure comunque meno gravi di un Ak-47.

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