Kamala Harris cerca alleati in Asia, ma si trova in mezzo al guaio afghano
Prima di Kabul, la priorità di Washington era strategia dell'Indo-Pacifico e il contenimento della Cina. Ora forse qualcosa cambierà
Se non ci fosse stato l’Afghanistan, il viaggio della vicepresidente americana Kamala Harris nel sud-est asiatico sarebbe stato seguito come uno dei più importanti nella costruzione della politica estera dell’Amministrazione Biden. Programmata da tempo, la visita a Singapore e in Vietnam avrebbe dovuto riaffermare – ancora una volta – la centralità dell’area asiatica negli obiettivi della Casa Bianca, ma soprattutto la centralità della Cina e del suo contenimento. L’opposizione all’espansionismo un po’ bullo di Pechino è ormai un tema bipartisan a Washington, l’ex presidente Donald Trump lo aveva affrontato con strumenti rozzi e senza realizzare un vero sistema di alleanze nel Pacifico. Con Joe Biden alla presidenza è cambiato il metodo, fatto di diplomazia e di rafforzamento delle amicizie nell’area, ma l’obiettivo è sempre lo stesso: contenere Pechino.
La strategia per ora sta andando male, quando non malissimo. La conquista dell’Afghanistan da parte dei talebani ha riaperto in America la ferita dell’estremismo islamico, ma soprattutto ha iniziato a far vacillare la certezza che il nemico pubblico numero uno degli Stati Uniti e dei paesi a loro vicini, superato il ventennio post 11 settembre, fosse diventato Pechino e il suo autoritarismo. Ma c’è di più. Kamala Harris è arrivata lunedì scorso nella piccola Svizzera asiatica di Singapore, circa un mese dopo la visita di stato negli stessi paesi dell’area asiatica del segretario alla Difesa Lloyd Austin, e ha detto di essere volata in Asia nonostante il caos in Afghanistan perché “l’America è un leader globale e prendiamo sul serio questo ruolo, pur sapendo di avere molti interessi e priorità in tutto il mondo. Sono qui a Singapore per riaffermare il nostro impegno nei confronti della regione indo-pacifica”. Per Washington la priorità è soprattutto il Mar cinese meridionale, un pezzo cruciale della globalizzazione marittima, da un decennio ormai militarizzato dalla Cina che ne rivendica la territorialità. Proprio per via delle sue rivendicazioni nel Mar cinese meridionale, Pechino nel corso degli anni ha aperto numerosi fronti di attrito con i paesi dell’area – Filippine, Vietnam e Singapore compresi – sfruttando però la diplomazia economica per superare i problemi bilaterali, in un momento in cui l’America si allontanava sempre di più dall’Asia. Il ritorno del “pivot to Asia” dell’ex presidente Barack Obama, reinterpretato da Joe Biden, offre però pochissime rassicurazioni ai paesi del sud-est asiatico: mentre Kamala Harris diceva al governo di Singapore e a quello del Vietnam che l’America non li avrebbe abbandonati, che “l’Indo-Pacifico è cruciale per la sicurezza e la prosperità degli Stati Uniti”, le truppe americane stavano organizzando l’evacuazione dall’Afghanistan – una contraddizione che è stata sfruttata e sottolineata più volte dalla propaganda cinese in questi giorni. In Vietnam, un paese che in passato ha preferito spesso l’alleanza con l’America rispetto a quella con la Cina, la Harris è stata perfino più dura contro Pechino: ha parlato di “coercizioni e intimidazioni” da parte della seconda economia del mondo, e ha promesso ad Hanoi aiuti economici e ulteriori dosi di vaccini Pfizer.
Ma nel frattempo sui social network cinesi circolava molto l’immagine dell’evacuazione delle truppe americane da Saigon nel 1975 messe a confronto con quelle di Kabul. L’aria si è fatta ancora più tesa quando si è saputo che il trasferimento della vicepresidente e del suo staff da Singapore alla capitale vietnamita era stato ritardato di almeno tre ore per via di un non meglio specificato “problema sanitario”. L’espressione è usata di frequente per riferirsi alla misteriosa “sindrome dell’Avana”, che negli ultimi cinque anni ha fatto ammalare diversi funzionari americani di stanza a Cuba, in Russia, in Cina, ma ultimamente anche sul territorio americano. Chi viene colpito dalla sindrome presenta nausea e vertigini improvvise, ma diversi pazienti subiscono perfino lesioni cerebrali e danni permanenti. I funzionari della Casa Bianca hanno detto di aver proseguito il viaggio della vicepresidente solo dopo essersi assicurati che non c’erano rischi per la salute della delegazione.